Giorno del ricordo. «I nostri cari ancora in fondo alle Foibe». Le parole di Mattarella

Il Giorno del Ricordo. «Genitori e fratelli senza tomba, l’Italia si faccia rispettare». Mattarella: simbolo tragico di un capitolo storico poco conosciuto.

 

Il genocidio dei giuliano-dalmati avviene a più riprese a partire dal 1943, con punte di ferocia già in tempo di pace: mentre il resto d’Italia festeggia il suo 25 Aprile, Istria, Fiume e Dalmazia sono ‘liberate’ dai partigiani comunisti di Tito, il cui ordine è de-italianizzare quelle regioni. Inizia il calvario delle foibe, dei campi di concentramento jugoslavi, delle deportazioni: in 300mila scappano e in tutta Italia si allestiscono per gli esuli 109 campi profughi ricavati in ex caserme, ex manicomi, scuole dismesse. Nel 2004 il Parlamento italiano ha istituzionalizzato all’unanimità il Giorno del Ricordo, celebrato il 10 Febbraio, data del Trattato di Parigi che nel ’47 cedette alla Jugoslavia le nostre regioni orientali. Tra le centinaia di celebrazioni in tutta Italia, quella ufficiale si terrà oggi alle 17 a Palazzo Madama (diretta Rai2), presenti il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e i presidenti di Senato e Camera, Grasso e Boldrini. Restano però aperte gravi questioni, prima tra tutte il recupero di migliaia di vittime tuttora senza una tomba, i cui familiari abbiamo qui intervistato. Un primo passo, dopo 70 anni, è stato fatto due mesi fa con la perlustrazione congiunta italocroata a Castua, presso Fiume, dove una fossa comune ricopre tra le altre la salma del senatore Riccardo Gigante. Un passo storico che entro giugno potrebbe portare a degna sepoltura i primi martiri tra molte migliaia, i cui figli ancora attendono da 70 anni che l’Italia chieda indietro i suoi morti. Il presidente Mattarella questa mattina ha detto che “il Giorno del Ricordo è stato istituito dal Parlamento per ricordare una pagina angosciosa che ha vissuto il nostro Paese nel Novecento. Una tragedia provocata da una pianificata volontà di epurazione su base etnica e nazionalistica”.

«Tutti gli anni, nel giorno dei Morti, mi reco in Istria e porto un mazzo di fiori in un cimitero qualsiasi, scelgo la tomba più disadorna e immagino che lì sia sepolto mio padre. Il tempo si è fermato la notte in cui lo vidi trascinato fuori di casa da quattro uomini di Tito, vestiti con una divisa scalcinata e la stella rossa sul berretto. Era il 4 maggio del ’45 e la guerra era finita, io avevo 9 anni». Piero Tarticchio, scrittore e artista nato a Gallesano (Pola), è uno dei testimoni della pulizia etnica operata dal regime comunista jugoslavo dopo la seconda guerra mondiale in Istria, Fiume e Dalmazia.

I CAMION DELLA MORTE La tragedia nella tragedia fu proprio questa: «Non solo in pochi giorni scomparvero migliaia di italiani, ma noi sopravvissuti fummo condannati a una sorta di ergastolo, l’attesa vana di sapere dove fossero stati gettati i loro corpi. A migliaia giacciono ancora nel fondo delle foibe, intere famiglie finirono in fondo al mare con una pietra al collo, e tanti altri sparirono in fosse comuni, dopo essere stati internati per anni nei capi di concentramento di Tito… ». Sono passati i decenni, la Jugoslavia è sparita dalle carte geografiche, ma ancora gli esuli giuliano dalmati attendono invano il diritto più antico, rispettato persino nelle tregue permesse dalle guerre, «quello di seppellire i propri morti». Colpa in primo luogo dell’Italia – dicono – che dal 1945 ad oggi non ha mai preteso il recupero della salme, ma nemmeno ha avviato indagini per accedere agli archivi jugoslavi e scoprire i loro destini. «Mio padre era un semplice commerciante alimentare – continua Tarticchio, che nelle foibe istriane ha perso sette familiari –. Per settimane lo imprigionarono nel castello di Pisino e tutti i giorni io e la mamma ci recavamo là sotto, c’era un’inferriata e uno per volta i prigionieri si sporgevano per salutare. Un mattino non si affacciò più nessuno: un vecchio li vide mentre li caricavano su un camion, probabilmente per condurli alla Foiba di Vines».

A 19 ANNI «NEMICA DEL POPOLO» La stessa da cui i Vigili del Fuoco di Pola guidati dal maresciallo Harzarich recuperarono il nonno e lo zio di Antonella Sirna, 58 anni, nata in Veneto da genitori esuli di Parenzo. «Mia mamma, Mafalda Codan, a 19 anni fu dichiarata ‘nemica del popolo’ e condannata a dieci anni di campo di lavoro. Era il 19 settembre del 1945, in pieno tempo di pace – racconta –, tornò libera nel 1949 solo grazie alla croce Rossa internazionale». Tutti gli uomini di casa invece erano stati uccisi, in quanto possidenti terrieri: «In sette furono sprofondati nella Foiba di Vines, ma solo in due saranno poi ritrovati. Mia mamma è morta di recente portando sempre nel cuore un do- lore senza consolazione. Incarcerata nel Castello di Pisino aveva riconosciuto la voce di suo fratello Arnaldo, 17 anni, tra le urla dei torturati, e il giorno dopo ha visto partire la sua salma in direzione di Vines… ma non c’è certezza. Nel 2018 l’Italia ha ancora paura di far valere il diritto umano alla sepoltura? Ma che Paese siamo?».

DECAPITATO PER I DENTI D’ORO Giuseppe Cernecca, semplice impiegato comunale a Gimino, fu arrestato dopo l’8 settembre del 1943 dai miliziani comunisti, sottoposto al solito processo farsa, torturato e ucciso. Per rubargli più agevolmente i denti d’oro lo decapitarono e con la sua testa giocarono una macabra partita di pallone. «Avevo sei anni e non ho dimenticato niente», testimonia la figlia Nidia, nota per aver trascinato in tribunale negli anni ’90 Ivan Motika, l’aguzzino di suo padre. «Papà, legato con una catena da buoi al collo, fu costretto a portare un sacco di pietre sulle spalle e poi lapidato con quegli stessi sassi». Solo negli anni ’60, tornata a Gimino sulle tracce del padre, Nidia seppe la verità: due contadini che avevano assistito alla lapidazione, dopo 14 anni avevano riesumato il corpo e lo avevano sepolto, senza testa, in qualche angolo privo di tombe del cimitero di San Pietro in Selve. «Decisi di non cercarlo, volevo qualcosa di mio in Istria, ma almeno potevo consolare mia mamma perché le ossa di papà erano in terra consacrata. L’estate successiva la portai con me a mettere un fiore. È sempre caduta nel vuoto però la mia richiesta, fatta alle associazioni degli esuli, che l’Italia pretendesse per noi il permesso di esplorare le foibe e mettere tutti i caduti in un unico grande ossario che ormai parlasse di pace».

LA MAESTRA LA PRIMA A SPARIRE Lucia Hödl è fuggita solo nel 1949, quattro anni dopo l’inizio della pulizia etnica, «perché aspettavamo sempre che Enrichetta tornasse a casa. A 17 anni era sparita nel nulla e nessuno di noi si rassegnava. Io avevo 11 anni». Il 3 maggio 1945 i titini erano entrati a Fiume e immediata ebbe inizio la mattanza. «Le due signore Senis, madre e figlia, insegnante e direttrice della scuola, erano scomparse, così la mamma mandò Enrichetta dalla zia a Trieste, con l’idea di scappare tutti al più presto – racconta Lucia –. Papà, industriale, era morto da anni d’infarto. Purtroppo Enrichetta con l’incoscienza della gioventù tornò a Fiume senza preavviso… Solo una vicina di casa l’ha vista che camminava in mezzo a due guardie con la stella rossa, allora mamma è corsa al carcere di via Roma e l’ha scorta da lontano, ma i titini la rassicurarono che era lì solo ‘per informazioni’ ed entro tre giorni sarebbe tornata a casa. Il quarto giorno il carcere era stato svuotato». Espropriata di tutto, costretta a convivere con altre famiglie nelle sue stanze, malvista perché andava in chiesa, mamma Olga resistette anni a Fiume, sempre guardando la porta, poi per il bene dei più piccoli scappò in Italia. «Per 7 anni vivemmo in campo profughi a Termini Imerese e lì un’esule ci portò un articolo uscito su ‘La settimana Incom’, dov’erano fotografate alcune ragazze in un campo di concentramento jugoslavo. Fu un colpo al cuore, una pareva proprio Enrichetta, ormai era il 1954». Inutile rivolgersi al giornale, arrivò una raccomandata di risposta che diceva: ‘Abbiamo avuto seri problemi con il governo jugoslavo. Inoltre la redazione romana è andata a fuoco e il materiale è andato perso’…

«SOLO NEL 2004 SAPEMMO DI PAPÀ» «Sono nata a Rovigno nel ’42 ma solo perché mio padre, carabiniere siciliano, vi era stato trasferito due anni prima… ». Sono centinaia i carabinieri trucidati dai titini e tra questi Domenico Bruno, 35 anni. La figlia Grazia, 3 anni, gli era in braccio quando in pausa pranzo due miliziani lo prelevarono da casa. «Papà era tranquillo, non aveva fatto nulla di male, mi pose a terra e li seguì ». Per mesi la moglie si presentò in caserma, ma rientrava sempre con risposte vaghe, ‘è stato trasferito’, ‘tornerà’… «Solo nel 2004, dopo la legge istitutiva del Giorno del Ricordo, sapemmo che vicino al castello di Pisino all’epoca erano state recuperate 44 salme e la figlia di un altro carabiniere aveva riconosciuto suo padre e anche il mio. Ma noi eravamo già in Sicilia e mamma è morta nel 1963 che ancora aspettava notizie ». Dagli anni ’80 Grazia ha scritto ai vari ministri degli Interni italiani ricevendo risposte distratte, ‘ci interesseremo’, ‘le faremo sapere’. È stata la voce della gente l’unica a parlare: «Ci hanno detto che quelle 44 salme furono sepolte in due fosse comuni sui lati del vialetto che conduce al cimitero di Pisino. Ci vorrebbe tanto a riesumarle?».

«QUELLA NOTTE LA MAMMA IMPAZZÌ» Il calcio del fucile batté alla porta di Carmelo D’Aliberti, vicebrigadiere della Guardia di Finanza a Pirano, il 3 agosto 1944. Lo spavento fu tale che la moglie quella notte fu ricoverata all’ospedale psichiatrico di Trieste. Antonio, 5 anni, raccolto da una famiglia di contadini, «per un anno non seppe nulla di sua madre, e lei non seppe nulla di lui», racconta la moglie Rosalia Simone (Antonio è recentemente scomparso). «Poi si ritrovarono, ma lei era così scioccata che per mesi continuò a dire che le avevano portato via anche il bambino. Per curarla, i fratelli glielo sedevano sulle ginocchia, ma era come impazzita, voleva partire per cercare il marito e il figlio». Tornò la lucidità e con essa i ricordi della brutalità subìta e sempre quel cruccio, «senza una tomba per suo marito non ha mai elaborato il lutto. Per anni ha continuato a illudersi che, come tanti reduci dalla guerra, anche lui potesse tornare. È morta nel 1986 e tutti i giorni, nessuno escluso, ha continuato a chiedersi dove fosse il suo corpo, per noi era uno sfinimento».

«LETTERE SENZA RISPOSTA» Ha scritto a tutti gli ultimi presidenti della Repubblica, Rosa Vasile, figlia di Gerlando, usciere alla questura di Fiume, «un civile, un uomo buono e di grande onestà, marito e padre esemplare di cinque bambini», ma non ha mai ricevuto una riga di risposta. La mattina del 3 maggio 1945, il famigerato giorno dell’ingresso dei titini, suo padre si presentò regolarmente al lavoro, ma «alle 11 una vicina corse a dirci che lo aveva visto portar via con tutto il resto del personale della questura, un centinaio di italiani. Avevo 12 anni e con la mamma andammo al carcere, fuori c’erano tante famiglie, tutti piangevano mentre i titini armati ci respingevano con il calcio dei fucili. Io gridai a gran voce, ‘papà, papà’ e da una finestra con le grate lo sentii urlare, ‘Rosellina, Rosellina’. Spuntò anche la mano. Fu l’ultima volta che sentii la sua voce». Dopo due giorni un camion portò tutti in foiba. Chi abitava vicino al carcere ha raccontato di quell’uomo che urlava straziato «lasciatemi, sono padre di cinque figli, non ho mai fatto del male». Per mesi Rosa e la madre andarono negli uffici del comitato popolare jugoslavo, dove un giorno «un omaccio con la stella rossa mi disse che papà era colpevole di essere fascista. Non lo avesse mai fatto: mi avventai su di lui, che mi sbatté sul muro come un tappeto. Mamma supplicava, ci siamo salvate per miracolo. Mio padre non era mai stato fascista, era solo italiano e innamorato dell’Italia».

I DESAPARECIDOS DI GORIZIA Anche a Gorizia il 3 maggio del ’45 segnò non la Liberazione ma l’inizio della fine, con centinaia di civili rastrellati in poche ore. «Mio padre era medico e uomo liberale, lo vidi l’ultima volta nel carcere di Gorizia dietro una finestra, mi sorrideva – dice Giorgia Rossaro Luzzatto, 95 anni –. Mia madre per 13 anni restò seduta davanti alla porta da cui era uscito. Finalmente una decina di anni fa la storica slovena Nataša Nemec ha diffuso la lista dei 1.048 deportati da Gorizia, tra i quali mio padre», che su quelle carte risulta ‘interrogato’ la notte stessa a Lubiana, poi probabilmente fu internato nel campo di sterminio di Borovnica. «Lubiana dista un’ora di autostrada, i nostri politici cosa fanno? Parte della mia famiglia è morta ad Auschwitz sterminata dai nazisti e la Germania ci ha risarciti di tutto, da Slovenia e Croazia non voglio risarcimenti, chiedo indietro soltanto le salme».

Lucia Bellaspiga, Avvenire, 9 febbraio 2018