L’irredentismo italiano, il pensiero di Robert Michels

di Filippo Del Monte – 22/03/2020 – Fonte: Progetto Prometeo

Il sociologo tedesco di nascita ed italiano per scelta Robert Michels (1876-1936) è stato uno dei più importanti pensatori moderni, capace di influenzare la cultura politica internazionale del Novecento. Prima ardente socialista, poi sindacalista rivoluzionario, optò per il nazionalismo italiano allo scoppio della Guerra di Libia ed aderì infine al fascismo, convinto del fatto che il carisma mussoliniano avrebbe abbattuto il muro dei corpi intermedi dando al proletariato una rappresentanza diretta nella gestione dello Stato.

Intellettuale di “sintesi” e caposcuola dell’elitismo, assieme a Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, Robert Michels passò agli onori della cronaca per aver teorizzato nel suo libro del 1911 “Zur Soziologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie. Untersuchungen über die oligarchischen Tendenzen des Gruppenlebens” (La sociologia del partito politico nella democrazia moderna: studi sulle tendenze oligarchiche degli aggregati politici; ed. Italiana 1912) la “legge ferrea dell’oligarchia”. La figura del Michels “elitista” ha oscurato quella del Michels studioso del fenomeno irredentista; eppure le riflessioni dell’intellettuale italo-tedesco sui territori italiani soggetti all’Austria-Ungheria rappresentarono una tappa fondamentale per il suo percorso culturale sia perché gli procurarono l’ostilità dei nazionalisti tedeschi, sia perché esse furono i primi colpi inferti al suo credo internazionalista prima della svolta “socialista nazionale” del 1911-1912.

Del 1902 è il saggio michelsiano “Das unerlöste italien in österreich” (L’Italia irredenta in Austria) pubblicato sulla rivista d’orientamento socialista tedesca “PolitischAnthropologische Revue”. Robert Michels pubblicò la sua riflessione sugli italiani d’Austria nell’ambito di uno studio più approfondito sulle nazionalità oppresse dai grandi imperi. Il 1902 per l’irredentismo italiano fu un anno cruciale, infatti in primavera gravi disordini erano scoppiati a Graz, Innsbruck e Trieste, arrivando perfino a lambire la capitale imperiale Vienna, in seguito agli scontri tra studenti italiani e tedeschi – questi ultimi spalleggiati dalle autorità – che aprirono la fase acuta del confronto sull’opportunità, insieme politica ed ideologica, di aprire una facoltà universitaria in lingua italiana ad Innsbruck. La questione si aggraverà soltanto l’anno successivo ma le basi erano state abbondantemente gettate e quei disordini crearono non pochi grattacapi al governo di Roma costretto, da una parte, a buttare acqua sul fuoco con Vienna – formalmente alleata nell’ambito della Triplice Alleanza – definendo gli studenti italiani più attivi una “sparuta minoranza” e, dall’altra, a non recidere il legame con gli irredentisti del Regno che rappresentavano un gruppo di pressione importante e rumoroso.

L’opera michelsiana, ispirata proprio da questi episodi, evidenziava il carattere “innaturale” della sottomissione degli italiani irredenti alla corona asburgica. Facendo proprie le ragioni dell’irredentismo, Michels affermò che gli italiani – la minoranza numericamente più forte e radicata, nonché culturalmente e socialmente più avanzata – del Tirolo meridionale, del Friuli (con i centri di Trieste, Gorizia e Gradisca), dell’Istria e di una sostanziosa porzione della Dalmazia, avessero tutte le ragioni per auspicare il ricongiungimento etnico e politico al vicino Regno d’Italia. Tuttavia Michels non esitò a mettere nero su bianco le debolezze del movimento irredentista: sia in Trentino che nelle Venezie gli irredentisti – ma più in generale gli italiani e gli italofoni – erano accerchiati e vittime dell’odio dei tedeschi e degli slavi alimentato ad arte sia dalle autorità imperialregie che dai circoli politico-intellettuali di matrice pangermanista e slavo-asburgica, senza contare la sorda ostilità del clero cattolico nei confronti degli italiani giudicati, generalmente, come dei sovversivi reali o potenziali. La necessità di condurre una lotta svantaggiata e l’obbligo di cercare il “compromesso” ora con gli slavi ora con i tedeschi erano le grandi pecche del movimento irredentista italiano in terra austriaca.

Il sociologo tedesco andava ad inserirsi nel dibattito sull’irredentismo proprio in una fase in cui anche i circoli politici italiani erano impegnati, a vario titolo, in un’opera quantomai necessaria di ricalibratura dell’azione diplomatica di Roma. Se la questione irredentistica riscuoteva grande popolarità in seno all’opinione pubblica, le necessità strategiche avevano imposto un’alleanza con la Germania e con il “nemico atavico” austroungarico. Mantenere in vita la Triplice Alleanza implicava per l’Italia il rinvio sine die – per non dire direttamente la rinuncia – della discussione sulle terre irredente.

Questa tendenza “rinunciataria” della diplomazia italiana era nata con il Congresso di Berlino (1878) e si era rafforzata nella seconda metà degli anni ’80 del XIX Secolo, quando vi era la necessità sia politica che militare di venire a patti con la Germania in funzione anti-francese. Se l’alleanza tra Italia e Germania implicava, per volere di Berlino, anche la soppressione di qualunque frizione tra Roma e Vienna, era anche vero che ai primi del ‘900, grazie all’azione di associazioni patriottiche come la “Società Dante Alighieri” e di esponenti del mondo accademico come Pasquale Villari e della cultura come Gabriele D’Annunzio, la questione irredentista era tornata d’attualità e metteva la classe dirigente italiana di fronte ad un bivio: o rinunciare a qualunque pretesa sulle terre irredente tradendo i sentimenti e le aspirazioni diffuse degli italiani sia regnicoli che irredenti oppure rompere l’alleanza con tedeschi ed austro-ungarici senza la certezza di avere l’appoggio di altre Potenze come la Francia o la Gran Bretagna. La centralità del problema irredentistico per la politica italiana – che esploderà con virulenza solo dopo la Guerra di Libia del 1911 per arrivare a soluzione con l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria-Ungheria nel 1915 – era stata anticipata e già evidenziata da Michels in “Das unerlöste italien in österreich“.

Respingendo con forza la tesi secondo cui le rivendicazioni italiane sulle terre irredente fossero contrarie agli interessi nazionali tedeschi, Michels scrisse: «[…] ciò che è minacciato in massimo grado dagli Italiani è solo la cosiddetta “idea austriaca” e a questa “idea austriaca” già il principe di Bismarck ha negato con fermezza ogni diritto all’esistenza». L’esistenza in Trentino di una maggioranza etnico-linguistica italiana e la «lotta di razza con gli Slavi» nelle Venezie erano la prova tangibile della crisi in cui il multinazionale Impero d’Austria-Ungheria si dibatteva, così come al tramonto era quella “idea austriaca” teorizzata e difesa dall’«aristocrazia senza patria» imperialregia e dalle alte gerarchie del cattolicesimo austriaco.

Certamente le riflessioni di Michels sull’irredentismo italiano rispondevano alla necessità di contribuire al grande dibattito aperto in seno al socialismo europeo sulle nazionalità e sul concetto stesso di nazione in una fase in cui il sociologo tedesco, deluso dalla sua carriera accademica, aveva rafforzato la propria presenza militante sia sulle riviste d’area socialdemocratica che su quelle d’area socialrivoluzionaria. Eppure si sbaglierebbe a credere che dietro al saggio “Das unerlöste italien in österreich” non vi fossero anche interessi prettamente accademici per l’evoluzione dei nazionalismi nella nascente società di massa e la ricerca di una conferma alla sua teoria relativa alla differenza esistente tra nazionalismo e patriottismo, con il primo legato a doppio filo allo sviluppo del capitalismo e del militarismo ed il secondo proteso alla libertà dei popoli e “fratello gemello” dell’internazionalismo proletario. Una conclusione forzata e che non rispondeva pienamente alle caratteristiche del movimento irredentista e delle sue rivendicazioni quella di Michels che, però, era rispondente ai canoni imposti dal sociologo positivista italiano d’orientamento radicale Guglielmo Ferrero con il libro “Il militarismo” (Treves, Milano, 1898) sulla sostanza del “carattere nazionale” italiano; tematica questa che verrà approfondita dallo stesso Michels in “Die Friedensbewegung in Italien” (in “Die Frau”, 1903). Innegabile anche l’influenza che la concettualizzazione del principio di nazionalità elaborata nel 1851 dal “giurista del Risorgimento” ed ex ministro degli Esteri italiano Pasquale Stanislao Mancini ebbe sul pensiero di Michels e sulla sua interpretazione del fenomeno irredentista, tale da avvicinarlo all’idea che tra internazionalismo e nazionalismo esistesse una “terza via” rappresentata dal patriottismo risorgimentale in cui gli irredentisti trentini e giuliani si rispecchiavano.

Se nel 1902 Michels era giunto per la prima volta concretamente a contatto con il mondo politico e culturale italiano iscrivendosi al PSI, avvicinandosi ai riformisti e collaborando alla rivista “La Riforma Sociale”, è a partire dal 1903 che inizia ad interessarsi fattivamente alla difesa dei diritti delle nazionalità oppresse prendendo le mosse dagli insegnamenti del Risorgimento italiano e dalle ragioni degli irredentisti; Michels adottò così il “caso italiano” per spiegare quello delle minoranze danese e polacca sottomesse all’Impero Tedesco ed aprendo una breccia nella granitica teoria del socialismo anche se, almeno in quegli anni, con i principali teorici marxisti impegnati nel Bernstein-Debatte ed il “fulmine a ciel sereno” che piombò sull’ortodossia e sul riformismo con il “revisionismo rivoluzionario” di Sorel, praticamente nessuno vi fece caso.