«1945: alle origini della questione di Trieste», il saggio di Marina Cattaruzza

Scritto da «Il Piccolo», 26/06/09

Da La resistenza patriottica a Trieste pubblichiamo la parte iniziale del saggio di Marina Cattaruzza 1945: alle origini della questione di Trieste, per gentile concessione della Libreria Editrice Goriziana.

di Marina Cattaruzza

La “questione di Trieste” è stato un tema frequentemente trattato dalla storiografia italiana ed internazionale. Tuttavia, nell’ampia messe di studi, che si avvalgono di un’eccellente base documentaria edita ed inedita, essa viene collocata per lo più nel reticolo delle relazioni tra Unione Sovietica, Stati Uniti, Gran Bretagna e Jugoslavia ed esaminata dal punto di vista di come i rapporti tra i diversi attori storici abbiano determinato i nuovi assetti del confine orientale italiano, in una situazione in cui l’Italia era condannata alla “politica dell’impotenza”. In questo breve saggio cercherò invece di sviluppare una nuova prospettiva per una “vecchia questione”, tenendo presenti, più di quanto sia stato fatto finora, i processi che parallelamente si svolgevano nell’Europa centro-orientale occupata dall’Armata Rossa, la nuova percezione che maturava negli Stati Uniti sugli equilibri internazionali e gli obiettivi sovietici rispetto alla Pufferzone nell’Europa centroorientale.

In tale ottica Trieste diviene un tassello in un mosaico più ampio, in cui l’attenzione non si concentra tanto sui rispettivi interessi delle grandi potenze e della Jugoslavia per l’area contesa, quanto sulle nuove tecniche di dominio e controllo messe in atto dalla componente jugoslava – allora a tutti gli effetti satellite dell’Unione Sovietica – sotto gli occhi degli osservatori anglo-americani. Trieste: quante liberazioni? Le armate di Tito lanciarono la loro offensiva finale il 20 marzo 1945, le forze alleate in Italia tre settimane dopo. L’avanzata jugoslava procedeva rapidamente: il 4 aprile cadeva Bihac, il 10 dello stesso mese Senj. I tedeschi arretravano verso nord, mentre la Quarta Armata partigiana entrava a Susak il 20 aprile. Qui i tedeschi organizzavano la loro ultima difesa, trincerandosi attorno a Fiume. La Quarta Armata aggirava Fiume a sud e raggiungeva via mare l’Istria. Nella primavera del 1945, Franc Leskovšek, del comitato centrale del partito comunista sloveno, impartiva le seguenti indicazioni in vista dell’occupazione di Trieste: «Preparare per Trieste il personale qualificato – la polizia. In ventotto ore bisogna mettere in funzione tutto l’apparato, prelevare i reazionari e condurli qui, qui giudicarli – là non fucilare».

Intanto a Trieste il Comitato di Liberazione Nazionale (di cui da alcuni mesi non facevano più parte i comunisti perché su posizioni filojugoslave) si trovava dal 28 aprile in uno stato di febbrile attesa, pronto a dare l’ordine dell’insurrezione. La resistenza italiana era composta di un massimo di 3.000 uomini male armati, che non avrebbero potuto resistere in armi molto a lungo. Per questo, la scelta del momento era di estrema importanza: era necessario insorgere non troppo prima dell’arrivo degli alleati occidentali, ma comunque prima che la città venisse occupata dagli jugoslavi. Nel frattempo aveva già avuto luogo una parziale evacuazione delle truppe tedesche, che agli ordini del generale delle Ss Odilo Globocnik si preparavano a trincerarsi in Carinzia per l’estrema resistenza. Collaborazionisti e fascisti avevano pure, in parte, abbandonato la città al seguito dei tedeschi. Il Cln rifiutava accordi con il prefetto Bruno Coceani, insediato dalle forze di occupazione tedesche, per una difesa di tutte le forze italiane contro l’avanzante esercito jugoslavo. Tale opzione non solo sarebbe stata rovinosa da un punto di vista politico, ma anche velleitaria da un punto di vista militare.

Gli italiani male armati non erano in grado di resistere a Tito. Inoltre, fatto non irrilevante, le direttive alle missioni alleate presenti in Friuli miravano ad impedire ogni coagulo di forze che intendessero opporre resistenza agli jugoslavi. Alle 5.20 del 30 aprile le sirene di Trieste davano l’annuncio dell’inizio dell’insurrezione generale. Ad essa prendevano parte sia appartenenti al Cln che alla filocomunista Unità Operaia. I tedeschi si trinceravano in quattro roccaforti, rifiutando la resa se non alla presenza di ufficiali inglesi ed americani. Il 1.o maggio i primi effettivi dell’esercito jugoslavo entravano in centro città. Poiché l’Ottava Armata inglese non era in vista, al Cln non restò altra scelta che ritirarsi dai combattimenti, per evitare scontri con gli jugoslavi. Sembra che il ritardo inglese nell’occupazione della Venezia Giulia fosse dovuto al timore di venir invischiati in scontri armati con l’Armata di Tito, in una riproposizione della situazione greca del 1944. Tuttavia, il 27 aprile, Churchill inviava a Truman e al Combined Chiefs of Staff un telegramma, con cui il premier britannico si esprimeva decisamente a favore di un avanzamento rapido verso la Venezia Giulia per occupare quanto più territorio possibile. Il feldmaresciallo Harold Alexander, massimo responsabile per le operazioni alleate nel Mediterraneo, ricevette un ordine corrispondente il 28 aprile: aveva inizio, con un ritardo ormai incolmabile, la “corsa per Trieste”.

Nel pomeriggio del 2 maggio entrava finalmente in città l’Ottava Armata, con i tedeschi ancora asserragliati nel palazzo di giustizia, nel castello di San Giusto e nel villaggio carsico di Opicina. Gli avvenimenti presero un andamento convulso: i tedeschi superstiti si arrendevano agli alleati e nonostante i disperati tentativi dei vertici del Cln di consegnare la città al generale neozelandese Bernard Freyberg, erano gli jugoslavi che prendevano possesso dei simboli del potere: la prefettura e il palazzo del comune, da cui veniva ammainata la bandiera italiana e issata quella jugoslava. Gli ufficiali neozelandesi venivano scortati in quanto “ospiti” all’Hotel de la Ville. Avevano così inizio i quaranta giorni di occupazione jugoslava di Trieste.

La politica jugoslava del fait accompli. Aveva inizio la “questione di Trieste”. Il “fatto compiuto” messo in atto dagli jugoslavi contraddiceva gli ultimi accordi stipulati tra Tito e Alexander a Belgrado il 2 marzo 1945. Secondo tali accordi (che già rappresentavano un arretramento rispetto agli accordi di Bolsena), gli angloamericani avrebbero potuto instaurare la propria amministrazione militare nell’area necessaria a mantenere il controllo delle linee di comunicazione stradali e ferroviarie con l’Austria (in ogni caso Trieste e Pola avrebbero dovuto rientrare in tale area). Significativamente, comunque, anche in caso di occupazione alleata, Tito chiedeva che venisse mantenuta in funzione l’amministrazione civile attivata sul territorio. Tale clausola, apparentemente innocente, prevedeva in realtà, che fossero mantenuti in vigore il “consiglio di liberazione”, la “milizia di difesa popolare”, il “tribunale del popolo”, i “comitati interaziendali”, i “comitati circondariali di liberazione” e le varie organizzazioni di massa fiancheggiatrici, che avrebbero garantito il saldo controllo delle forze jugoslave anche nelle aree amministrate dagli alleati.

In ogni caso, il 1.o maggio 1945, Trieste era in mano alle truppe jugoslave. La rottura degli accordi veniva giustificata da Tito in un messaggio ad Alexander del 3 maggio, in cui questi adduceva un’imprevista (ed in realtà pretestuosa) resistenza tedesca, che avrebbe reso necessarie tali misure. Ribadiva, ad ogni buon conto, che l’occupazione aveva non solo valenza militare, ma anche politica, di controllo su territori jugoslavi dal punto di vista nazionale, ingiustamente assegnati all’Italia dopo la Prima guerra mondiale. Dalle memorie di Harry Truman risulterebbe che anche Stalin, interpellato dal presidente americano perché si adoperasse nei confronti di Tito affinché questi ritirasse le sue truppe dai centri costieri della Venezia Giulia il 20 maggio 1945, avesse risposto che la maggioranza della popolazione del territorio era jugoslava e che «già durante l’occupazione tedesca si era formata un’amministrazione locale controllata dagli jugoslavi. Tale amministrazione gode attualmente della fiducia della popolazione locale . Il problema della gestione amministrativa di questo territorio potrà essere opportunamente regolato subordinando detta amministrazione civile al comando militare jugoslavo».