«Foibe, una storia d’Italia»

Scritto da Federico Degni Carando

L’ultimo libro di Joze Pirjevec, uscito da pochi giorni, ha generato immediatamente polemiche. Si intitola Foibe, una storia d’Italia e ieri, su «Libero», Giuseppe Parlato ne parlava così: «Pensavamo che la questione delle foibe, dell’esodo e di tutto quello che era successo tra il 1943 e il 1947 nella Venezia Giulia, nell’Istria, a Fiume e in Dalmazia fosse avviata su una buona strada: la storia prevale sulla politica; il metodo degli studi, rigoroso e serio, prescinde dalle passioni e dalle ideologie; si riconosce la necessità di fare entrare quelle vicende nell’ambito di una memoria pubblica.» Oggi, sempre su «Libero», la risposta gliela dava, credo indirettamente ed involontariamente, Fausto Carioti, a pag. 9, nel paragrafo intitolato “I rossi e le foibe”, nella parte conclusiva di un articolo sul Presidente Napolitano: «Un imbarazzo, molto poco istituzionale, davanti alla Storia che Napolitano ha confermato lo scorso 10 febbraio, nel Giorno del ricordo, istituito per ‘rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe’, uccise dai comunisti jugoslavi con l’avallo politico del Pci. Ecco, Napolitano è riuscito a ‘ricordare’ gli infoibati senza fare il nome dei loro assassini: i comunisti».

Perché Carioti avrebbe risposto, indirettamente ed involontariamente secondo quanto scrivevo prima, a Parlato (Giuseppe)? Perché Pirjevec non nega certo le foibe, ma specifica nella Prefazione al suo libro edito da Einaudi il carattere politico che la vicenda del “ricordo” ha assunto negli ultimi lustri: «Il sanguinoso capitolo delle “foibe”, legato alla fine della seconda guerra mondiale, che vide “regolamenti di conti” dappertutto in Europa dove s’era manifestata una qualche Resistenza, sarebbe stato da tempo relegato nei libri di storia come una delle vicende minori di quella mattanza mondiale che pretese cinquanta milioni di vite umane. Dato però che si colloca in una realtà mistilingue in cui le opposte idee sulle frontiere “giuste” sono state a lungo in conflitto tra loro, esso è ancor vivo nella memoria collettiva dell’area giuliana e ancora sfruttabile a fini politici interni e internazionali. Sebbene il contenzioso sulle frontiere sia stato risolto attraverso un lungo e articolato processo diplomatico […], esso non si è ancora risolto nelle menti e nei cuori delle popolazioni interessate. È stato anzi rinfocolato dalla crisi della Jugoslavia negli anni Ottanta e dal suo successivo sfacelo, con l’emergere dalle sue rovine di nuove realtà statali, la Repubblica di Slovenia e quella di Croazia soprattutto. Il contemporaneo crollo del Muro di Berlino e i suoi contraccolpi sulla politica interna italiana, con la scomparsa dei vecchi partiti e l’emergere di nuovi, provocò nella Penisola una crisi d’identità e di coesione nazionale, alla quale le forze di destra e quelle di sinistra pensarono di rispondere facendo ricorso allo strumento più ovvio e tradizionale: quello del nazionalismo. La vicenda delle “foibe” si prestava perfettamente allo scopo ed è stata sfruttata appieno Da problema tipico delle aree piuttosto limitate situate sulla frontiera orientale, essa divenne a partire dagli anni Novanta una questione nazionale grazie a un’azione propagandistica d’indubbia abilità ed efficacia.»

Non ho paura di dire che mi riconosco perfettamente in queste parole di Pirjevec. Il 10 febbraio è stato istituito per ricordare, giustamente, il dramma delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Cose che Pirjevec non nega. Ma chi può negare che sistematicamente, in ogni 10 febbraio, abbiamo assistito a strumentalizzazioni di ogni sorta, sia a sinistra che a destra? In particolare, come scriveva Carioti, la sinistra ha pensato bene di scaricare tutte le colpe su Tito e sulla Jugoslavia, parlando in ogni dove di «pulizia etnica». Chi conosce i fatti del conflitto bosniaco sa bene che la «pulizia etnica» è ben altra cosa. Non a caso, lo stesso Napolitano parlò di «contorni di una pulizia etnica». Ma intanto molti ex/post comunisti, facendo passare questo concetto, hanno trovato il modo di alleggerire, quando non scaricare del tutto, le colpe del PCI: non fu una manovra di noi comunisti, ma un’operazione pianificata da Tito contro gli italiani.

Il problema maggiore, però, è un altro. Riprendiamo le parole di Pirjevec: «La vicenda delle “foibe” si prestava perfettamente allo scopo ed è stata sfruttata appieno Da problema tipico delle aree piuttosto limitate situate sulla frontiera orientale, essa divenne a partire dagli anni Novanta una questione nazionale grazie a un’azione propagandistica d’indubbia abilità ed efficacia». Repetita juvant. Se infatti fino a pochi anni fa il carattere revanscista di alcune frange politiche e di alcune associazioni che avevano fatta propria la tragedia delle foibe e dell’esodo era peculiare solo della zona di Trieste e Gorizia, oggi si sta espandendo vieppiù nel resto d’Italia. Non passa 10 febbraio che gruppi di più o meno estrema destra non manifestino in occasione di quella data, lanciando slogan anti-slavi al limite del razzismo o, peggio, non istighino alla “riconquista” di quella che fu la “Venezia Giulia”. Frange isolate? Speriamo. Ad isolarli e/o a prendere le distanze da loro non vedo molti. E perché le Istituzioni si uniscono al coro della “pulizia etnica” e non dicono invece che fu soprattutto “pulizia ideologica” col nulla-osta del PCI ? Perché il 10 febbraio non si parla degli sloveni e dei croati infoibati? Perché non si dice che le stesse operazioni compiute da Tito in Venezia Giulia furono compiute a Sarajevo, Zagabria e Belgrado per eliminare tutte le fasce della popolazione “scomode” e contrarie al suo progetto comunista? Perché in tutta Italia si parla di “regolamento di conti” post-bellico e dopo il Tagliamento il tutto diventa “pulizia etnica”? Non nego che molti approfittarono della situazione per compiere vendette di tipo etnico, ma il disegno di Tito non era etnico, ma ideologico. Perché non viene detto chiaramente?

L’effetto, nel frattempo, è che nel resto d’Italia si sta diffondendo quell’astio e quello spirito di rivalsa nei confronti dei non meglio identificati “slavi”… un fuoco revanscista e nazionalista che fino a pochi anni fa era circoscritto a Trieste e zone limitrofe. E il messaggio che sta passando in tutta la Penisola è che questi “slavi assetati di sangue” si sono svegliati una mattina e hanno deciso di cacciare tutti gli italiani da Istria, Fiume e Dalmazia. Cosa c’entri tutto ciò con la memoria e con il ricordo di chi, innocente, subì quel dramma non ci è ancora dato di sapere. Il 10 febbraio dovrebbe essere un giorno di raccoglimento composto, in cui il popolo italiano, unito, rinnova la memoria di una tragedia. Non un giorno in cui ogni frangia politica trova il modo di sfogarsi contro il proprio avversario ideologico e/o – peggio – etnico.

Fonte: «Bora.La», 14/10/09.