Prigionieri del silenzio vent’anni dopo
Sono passati vent’anni dalla pubblicazione di uno dei libri più affascinanti di Giampaolo Pansa. Nel 2004 usciva infatti per i tipi di Sperling & Kupfer Prigionieri del silenzio. Una storia che la sinistra ha sepolto. Dopo il dibattito suscitato l’anno precedente da Il sangue dei vinti, Pansa tornava a sezionare le pagine meno conosciute del Novecento. Pagine diverse tra loro, è vero, ma accomunate dalla coltre di omertà in cui erano state avvolte per decenni.
«Se la verità non fa male, che verità è?» chiede provocatoriamente lo stesso Pansa. Ecco dunque che dai vinti di Salò l’attenzione si sposta verso i loro principali nemici, ossia i partigiani comunisti, alcuni dei quali costretti a vivere esperienze che nulla hanno da invidiare all’Inferno dantesco. Sì, perché Prigionieri del silenzio affronta l’incredibile biografia di un militante del PCI sconosciuto al grande pubblico, funzionale a uno sfondo più vasto: quello del trattamento disumano riservato ai comunisti filosovietici da parte della Jugoslavia di Tito dopo la rottura con Stalin del 1948.
Protagonista principale del racconto è il sardo Andrea Scano. Di questi Pansa si era già occupato del resto in un articolo su «L’Espresso» del 1996. Nato nel 1911 a Santa Teresa di Gallura, Scano passò attraverso alcune delle prove più difficili del suo tempo. Dopo un paio di fughe in Corsica per ragioni marginali, nel 1937 decise di partire volontario in Spagna, arruolandosi nelle Brigate Internazionali che combattevano il franchismo. Finita la guerra civile venne internato in Francia, chiedendo il ritorno in Italia dopo che il Paese transalpino era stato invaso dai tedeschi. Inevitabilmente il suo passato politico non poteva passare inosservato al fascismo, che, dopo qualche mese di carcere a Sassari, gli comminò il confino all’Isola di Ventotene, dove rimase fino alla caduta di Mussolini il 25 luglio.
Scano poté così raggiungere Genova, avendo un ruolo importante nella rifondazione del partito in quella città e divenendo poi una figura di spicco delle formazioni partigiane locali. Dopo Genova continuò l’attività politico-militare sull’Appennino ligure. Il suo inferno, e con lui quello di molti altri compagni di fede, iniziò però dopo la fine della guerra. Non è un mistero che, in vista di una rivoluzione considerata imminente, molti partigiani conservarono le armi anche dopo l’esperienza bellica. Scano fu uno di questi, finendo nel mirino dei Carabinieri nell’estate del 1947. Ricevuta una soffiata riuscì a fuggire a Fiume, ormai sotto la Jugoslavia di Tito. Peccato che l’anno successivo si consumò la brusca rottura tra Belgrado e Mosca. La polizia segreta jugoslava, la famigerata Udba, iniziò così una repressione di personalità e gruppuscoli sospettati, a torto o a ragione, di simpatizzare per l’Urss. Quasi superfluo sottolineare come il PCI, di stretta osservanza sovietica, accettasse in blocco le tesi moscovite. Tito, dipinto fino a poco prima come un eroe del proletariato, diventò improvvisamente un fascista e uno strumento della reazione, in combutta ovviamente con gli Stati Uniti.
Una manciata d’italiani, tra cui appunto Scano, considerarono dunque loro dovere organizzare una “resistenza” contro il traditore jugoslavo. Resistenza che consistette in azioni con un impatto quasi nullo, come dei rapporti fatti pervenire a Trieste, l’affissione di qualche manifesto e la realizzazione di qualche volantino. Azioni sufficienti però a far scoprire la cellula fiumana all’Udba. Nel luglio 1949 Scano finì così nel carcere civile di Fiume. Nel marzo 1950 fu poi trasportato a Goli Otok, l’Isola Calva al cui paragone, appunto, l’Inferno dantesco rappresenta un posto rassicurante. Tale lager era stato allestito proprio nel 1949 e sarebbe rimasto attivo fino al 1956. Il militante sardo si sarebbe ritrovato, come spiega Pansa, a vivere «in condizioni che neppure il più sadico dei romanzieri avrebbe saputo immaginare». Qui erano in vigore dei sistemi di “rieducazione” in cui i prigionieri stessi finivano per diventare aguzzini e delatori dei compagni di sventura. Scano riuscì per quanto possibile a preservare la propria umanità, fingendo soltanto di compiere tali violenze. Fame, sete, pestaggi continui, detenuti costretti a fare lavori massacranti e inutili: questa la quotidianità sull’isola croata. Chi non si dimostrava sufficientemente zelante nell’abiurare il “cominformismo”, ossia la fedeltà a Mosca, e a venerare Tito subiva trattamenti ancor più disumani. Il famigerato boicottaggio vedeva le vittime quasi soffocate nell’urina, oltre ad altre immani torture. Condannato a due anni, Scano ne scontò alla fine tre, uscendo da Goli Otok soltanto nel 1953. A chi veniva liberato veniva intimato di non rivelare mai cosa avesse subito all’Isola Calva, pena il ritornarci.
Un distrutto Andrea Scano tornò dunque a Fiume per qualche mese, facendo la vita da senzatetto, non potendo neanche mendicare pena nuovi guai con le autorità titine. Curiosamente venne aiutato dalle prostitute della città, riuscendo quantomeno a sopravvivere in quel momento terribile. Un altro breve periodo lavorò come verniciatore nelle stive delle navi, passando l’antiruggine: un lavoro massacrante per le vie respiratorie, tanto da dover far turni da 10 minuti per uscire fuori e respirare, salvo poi ritornare nello scafo per altri 10 minuti, e così via. Tutto questo, ovviamente, perché il militante sardo non aveva ancora ottenuto i documenti per lasciare la Jugoslavia, quel paradiso socialista che così tanti dolori gli aveva procurato.
Scano riuscì a tornare legalmente in Italia nel luglio 1949. Dopo essere stato prigioniero di Tito (il “Bandito” come arrivò a definirlo in una lettera privata) iniziava un’altra prigionia: quella del silenzio. I detenuti a Goli Otok, infatti, erano obbligati a mandare delle cartoline in Patria in cui inneggiavano al dittatore jugoslavo e ripudiavano Stalin. Scano ne inviò in Italia una, diventando agli occhi dei compagni una sorta di traditore, tanto da vedersi ritirata la tessera. Fatto per lui, che per il comunismo aveva letteralmente dato la vita, più che mai umiliante, nonché ulteriore fonte di dolore. Tentò di spiegare alle alte sfere del PCI cosa avesse patito (e cosa continuavano a patire altri connazionali in quel momento). Non bastò però a riabilitarlo agli occhi della “Chiesa Rossa”, come la definisce Pansa. Nel mentre, peraltro, fu costretto a farsi anche in Italia qualche mese di galera, per quella vecchia storia delle armi sequestrate dai Carabinieri. Galera che, in confronto al lager titino, fu per Scano una sorta di albergo di lusso.
Solo pochissimi comunisti italiani non recisero i rapporti con Scano, vittima ormai di uno stigma sociale. Servirono alcuni eventi epocali affinché potesse essere riammesso nel partito. Innanzitutto la morte di Stalin, con il suo successore, Krusciov, che si riappacificò con Tito. Il nuovo segretario del Pcus sostenne di fatto che le incomprensioni fossero figlie di un complotto reazionario messo in atto dalla cerchia intorno a Stalin. Tito non era dunque più un nemico dell’ecumene comunista e quello di Scano non poteva essere considerato un “tradimento”, visto che i veri traditori, secondo la nuova ortodossia sovietica, erano coloro che avevano provocato lo scisma tra Mosca e Belgrado. Scano, però, che le cose le aveva vissute sulla sua pelle, continuò a detestare il regime jugoslavo, cercando allo stesso tempo la riammissione nel PCI. Dopo molti tentativi questi riammise il militante sardo, attuando parallelamente una strategia del silenzio. Non conveniva a nessuno far conoscere le atrocità commesse a Goli Otok e nelle altre carceri jugoslave, soprattutto mentre in Unione Sovietica la destalinizzazione stava svelando gli analoghi misfatti compiuti oltre cortina.
A prescindere da quanto a noi possa oggi sembrare assurdo, visto quanto patito dal comunista sardo, il partito per Scano continuava a rimanere la propria ragione di vita. Per tale ragione accettò lo scambio implicito propostogli da via delle Botteghe Oscure: “perdono” in cambio del silenzio («una chiesa ingrata sino alla spietatezza anche con i propri chierici» riassume Pansa). Tale silenzio Scano lo mantenne tutta la vita, non raccontando nulla di quanto aveva subìto e visto in Jugoslavia. Fece del resto una discreta carriera locale con il PCI, al cui interno era ormai stato reintegrato a pieno titolo. Anzi, col tempo arrivò anche a terminare la frequentazione con quei compagni di sventura che, invece, si stavano impegnando per far conoscere, almeno a livello interno, la verità. Ciò, tuttavia, non impedì a Scano, dopo la sua morte, di far pervenire alla nipote Rina una poesia su quanto vissuto in quel terribile triennio croato. Poesia dal titolo “La pioggia di sangue”, scritta probabilmente in ospedale nel 1980, anno della sua morte:
“Se è all’inferno che sono destinato, / non preoccupatevi per me / che già ci sono stato!
Oggi ti vedo triste e preoccupata. / In silenzio ti osservo, / da quando sei entrata. / Gli occhi tristi, il mento sulle mani, / forse cerchi le parole per dirmi / che per me non c’è domani.
Per distrarti / Faccio anche il buffone. / Diventi rossa, / a stento trattieni il tuo magone. / Cosa ha oggi la mia nipote preferita? / Tu mi rispondi: / sono stanca della vita!
È giunta l’ora che non avrei voluto mai / di raccontarti una storia che non sai.
C’è un’isola deserta / in mezzo al mare. / Io ne conosco il nome, / ma non ti dirò quale.
C’è un’isola / Che ricorderò in eterno. / È l’isola del male. / E la chiamerò Inferno.
In fila indiana ci hanno accompagnati / con pugni e calci ci hanno massacrati.
Alzammo gli occhi per guardare i nemici. / Sbigottiti, scoprimmo che erano nostri amici.
Due file eran di uomini. / In mezzo dovevamo passare. / Gli ordini dicevano: / li dovete massacrare.
Molti di loro fingevano / troppi di loro godevano. / E non distingui più gli amici dai nemici. / Non si distingue più l’odio dall’amore. / Non bruciano il tuo corpo, ma il tuo onore.
Non è il tuo corpo a essere bruciato. / A vivere esso è condannato.
Non conosco le parole / per descrivere a te / la vita su quell’isola che non sai dov’è.
Ma se per caso un giorno / qualcuno parlerà, / un coraggioso più di me, / scoprirai dov’è e ci andrai.
Guarda il cielo e copriti. / Una pioggia di sangue / potrebbe bagnarti. / Una pioggia di sangue / sull’isola cadrà.
E se l’inferno voi volete visitare / è su quell’isola che dovete andare.
Passati sono orami tant’anni, / ma sono sicuro che / quando la bora soffia / porterà con sé, / più in alto che potrà, / una pioggia di sangue / che sull’isola cadrà.
E venne un giorno che a Fiume ritornai. / Cadavere vivente, / passavo tra la gente.
Tutto quello che so / io non lo volli dire. / Andò in pezzi la mia anima /e tutto il mio ardire!”
Marco Valerio Solia