«Il cuore antico dei miei Balcani. Una giungla magica e pagana»

Scritto da Alessandra Farkas, «Corriere della Sera», 23/08/11

NEW YORK – È tra i cinque migliori scrittori under 35 selezionati dalla National Book Foundation. La più giovane dei «20 under 40» della narrativa americana segnalati dal «New Yorker» nella sua lista. Una delle più influenti dell’editoria Usa, di cui la giuria del prestigioso Orange Prize deve aver tenuto conto lo scorso giugno quando la 25enne Téa Obreht è diventata la più giovane vincitrice nella storia del premio assegnato ogni anno al miglior libro in lingua inglese scritto da una donna. Il libro in questione, L’amante della tigre, sta per uscire in Italia, edito da Rizzoli, dopo essersi imposto come bestseller internazionale tradotto in ben 30 Paesi (oltre 250 mila copie vendute tra America e Gran Bretagna). Un successo che nel giro di pochi mesi ha rivoluzionato l’esistenza della scrittrice nata a Belgrado, da cui fuggì a sette anni, emigrando con la famiglia prima a Cipro e al Cairo e poi a 12 anni in Usa, dove ha seguito un Master in creative writing alla Cornell University. La protagonista del romanzo è Natalia, giovane medico di una nazione balcanica dove per spostarsi serve ormai il passaporto, che durante una missione per vaccinare gli orfani di guerra scopre che l’adorato nonno, anch’egli dottore di fama, è morto in circostanze misteriose in un villaggio lontano.

Nel tentativo di sciogliere il segreto della sua morte e recuperarne le spoglie, Natalia rivisita quasi un secolo di storia, della sua famiglia e dell’ex Jugoslavia, attraverso una successione di storie parallele ma alla fine convergenti. La più suggestiva riguarda una tigre che nel 1941, dopo un bombardamento tedesco, fugge dallo zoo di una città jugoslava e si rifugia in un villaggio vicino, dove viene accolta da una misteriosa donna sordomuta (ribattezzata «la moglie della tigre» dal villaggio superstiziosissimo dove il diverso è il demonio) e dal nonno di Natalia, allora un bimbo di 9 anni.

Ma tra i personaggi indimenticabili spiccano anche Luka, il macellaio gay e misogino con la passione per la musica, il nobile Darisa, «terrore degli orsi», lo speziale musulmano destinato al martirio, come la correligionaria sordomuta, e Gavran Gailé, l’ «uomo immortale», che come punizione per le proprie trasgressioni è «condannato» alla vita eterna dallo zio («la morte» stessa). «L’ uomo immortale viene dal folklore slavo e tedesco e mi ha aiutato molto a elaborare il lutto tremendo per la scomparsa di mio nonno Stefan, cui è dedicato il libro», spiega Téa. «Ho iniziato a scrivere subito dopo la sua morte, ancora più difficile da accettare, per me, della disintegrazione del mio Paese d’ origine». Alcuni critici hanno paragonato il libro a «Le Mille e una Notte » e ai romanzi di Orhan Pamuk. «Forse perché mi identifico sia nella tradizione letteraria orientale sia in quella occidentale. La prima si nutre di storie multigenerazionali complesse e tortuose, dove i protagonisti soffrono e trionfano grazie all’ intervento di forze superiori o di entità magiche che il patriarca di turno scopre dentro la bottiglia. La seconda è l’ossessione occidentale per la complessità interiore dei personaggi». Le pagine del libro sono infarcite di miti, superstizioni e folklore. È la Jugoslavia del passato? «No: fanno parte del carattere nazionale, nelle campagne come nelle grandi città, e sono l’ unico collante che oggi unisce Serbia, Croazia e Bosnia, dove la comune tradizione orale resta fortissima. Anche se alla base della guerra in apparenza c’era uno scontro tra religioni moderne, il paganesimo precristiano e preislamico continua a permeare e unire le coscienze. L’ho toccato con mano nel 2010, quando “Harper’ s Magazine” mi spedì nei Balcani per scrivere un articolo sui vampiri». Nel libro la ricerca del passato perduto prevale sulla celebrazione del presente. «Il fascino per la generazione dei nonni è universale e ben più forte dell’ attrazione che sentiamo per la generazione dei nostri genitori. Volevo esplorare quel passato romantico e misterioso, quel mondo e quella vita completamente imperscrutabili che esistevano quando io non ero neppure un pensiero».

Il nonno di Natalia gira ovunque con una copia del «Libro della giungla» di Rudyard Kipling, quasi fosse la Bibbia. «Quel classico ha plasmato la mia infanzia. Arrivando in America sono rimasta molto colpita che non faccia parte del repertorio di letture per ragazzi come da noi in Europa, nonostante sia stato scritto in Vermont». Quali sono state le sue altre influenze letterarie? «I libri che hanno letteralmente cambiato la mia vita sono stati Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, Il maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov, L’ amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez e La mia Africa di Karen Blixen. Amo molto Hemingway e Flannery O’ Connor e tra gli italiani Italo Calvino e Umberto Eco». Nel libro lei parla sempre di «Paese balcanico» senza mai nominarlo. «Non volevo essere limitata da fattori storici, cronologici o geografici. Mi interessava catturare l’ essenza dei conflitti e la dissoluzione del mio Paese, senza puntare il dito contro qualcuno né prendere parti. Come la maggior parte dei miei amici, anche io vengo da una famiglia mista: la nonna materna è musulmana, nonno Stefan cattolico». E la famiglia di suo padre? «Mio padre non fa parte della mia vita da quando sono nata. La mia figura paterna è stato nonno Stefan». N el libro il nonno di Natalia guarisce un maresciallo alla Tito. «Nello scriverlo pensavo proprio a Tito. Anche se mio nonno non l’ha mai incontrato, la sua generazione l’ ha idealizzato e lo rimpiange, convinta che tutti i problemi del Paese siano cominciati con la sua morte». Uno dei suoi personaggi a un certo punto afferma che «la guerra nei Balcani non finirà mai». Lo pensa anche lei? «Io sono ottimista. Anche l’ Europa ha avuto per secoli un’identità spezzata, con confini ballerini che si spostavano in continuazione. È una condanna del continente: i Balcani sono solo in ritardo su un processo che l’ Europa occidentale ha completato da tempo». Natalia e la sua migliore amica dottoressa dicono di appartenere alla generazione postbellica la cui missione è salvare il Paese. «I miei coetanei nella ex Jugoslavia sentono la responsabilità sociale e il desiderio di costruire un futuro migliore dove le guerre e le atrocità non accadranno mai più. Conosco tante persone che vanno all’ estero per studiare e poi tornare per aggiustare il Paese». Lei tornerà mai a casa? «Ci vado spesso per visitare mia nonna, ma passerà molto tempo prima che mi senta pronta a fermarmi in un posto. Sono cresciuta nomade e se resto in un luogo per più di un anno mi sento irrequieta e devo fare le valigie».

Il libro «L’amante della tigre» di Téa Obreht (traduzione di Isabella Vaj, pagine 347, 19,50) esce domani da Rizzoli.

La biografia Nata a Belgrado nel 1985, emigrata con la famiglia a Cipro e al Cairo e poi, quando aveva 12 anni, negli Stati Uniti, Téa Obreht ha frequentato un Master in Creative Writing alla Cornell university I premi Téa Obreht ha vinto a giugno l’Orange Prize, assegnato al miglior libro in lingua inglese scritto da una donna. Nel 2010 Téa Obreht è indicata tra i «cinque migliori autori sotto i 35 anni» della National Book Foundation.