Il Trattato di pace 10 febbraio 1947 nei programmi e nei testi scolastici di storia

Una lunga pagina bianca. Aperta il 10 febbraio 1947, subito dopo la firma del Trattato di Pace che «regolava i conti» alla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, e chiusa alla fine degli anni ’90. Anche se ancora molto andrebbe scritto. Perché l’oblio che ha accompagnato il dramma delle foibe non può rimanere relegato al Giorno del Ricordo istituito nel 2004 e celebrato, da allora, ogni 10 febbraio.

Non basta per cancellare i non detti, le omissioni, le scelte di una classe dirigente che ha volutamente deciso di girarsi dall’altra parte. Anche per questo assume un’importanza particolare il lavoro di Maria Ballarin, docente di Religione al liceo scientifico “San Cannizzaro” di Roma che ha recentemente ha pubblicato il suo libro «Il Trattato di pace 10 febbraio 1947 nei programmi e nei testi scolastici di storia». Un lavoro accurato, il primo, che dimostra come quella che ha cancellato per anni la tragedia del popolo giuliano-dalmata sia stata anzitutto un’operazione culturale (succede quando tocca ai vincitori scrivere la storia).

Il Trattato del 1947 chiedeva all’Italia di «restituire» alla Jugoslavia l’Istria, con le città di Fiume e Zara e le isole di Cherso e Lussino (836.129 abitanti). Nonché prevedeva il diritto da parte jugoslava di requisire tutti i beni dei cittadini italiani. A luglio il testo approdò davanti all’Assemblea Costituente per la ratifica. E fu un plebiscito: su 410 presenti 262 votarono sì, 68 no, mentre in 80 si astennero. Storico (e citato nel libro) resta il discorso pronunciato in quell’occasione da Vittorio Emanuele Orlando che sottolineò tutta la drammaticità di un’Italia che si vedeva «amputata» di città e territori dove «l’italianità è più profonda, più intima, più pura».

A settembre il Trattato entrò in vigore ed iniziò una lunga e travagliata vicenda. In realtà già nel 1945 il presidente del Consiglio Ferruccio Parri e il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi avevano denunciato la scomparsa di 8.000 deportati italiani in Jugoslavia.

Insomma sapevano. Sapevano che, dopo la fine del conflitto, i vincitori jugoslavi avevano utilizzato qualsiasi mezzo per ottenere la «slavizzazione» della Venezia Giulia. I bilanci peccano spesso in difetto, ma si calcola che tra il 1945 e il 1956, circa 350.000 italiani fuggirono dall’Istria, da Zara, Fiume e dalle isole, e si ritrovarono profughi lungo la Penisola.

Chi raccontò questo «lungo esodo»? Nessuno. Per una certa ideologia post-bellica i profughi erano dei «relitti repubblichini». La «parte giusta» era quella dei partigiani jugoslavi. Parlare di «identità nazionale» era «fascista». Meglio tacere. Nasce da qui il grande inganno della storiografia ufficiale. Condizionata dall’antifascismo militante con la connivenza della cultura cattolica che non voleva su di sé i sospetti di connivenze con un passato che andava cancellato. Ad ogni costo.

I brani dei manuali di storia citati sono capolavori di equilibrismo. Mai (salvo rarissime, forse uniche eccezioni) si fa riferimento alle foibe. E molto spesso la vicenda del confine orientale viene raccontata come la cessione di territori «abitati da prevalente popolazione slava». Quasi un atto dovuto, accompagnato dalla sottilineatura che comunque, nel 1954, «Trieste fu restituita alla sovranità di Roma». Il resto, comprese le lettere dei presidi che denunciano inesattezze geografiche e oblii, sono poco più che «sussulti nazionalistici».

Un atteggiamente forse inevitabile visto che, come recitava il «Parere sull’importanza dell’insegnamento della Storia e del ruolo del docente» scritto dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione nel settembre del 1960, «la trattazione dei fatti contemporanei…dovrà essere svolta…ai fini di apologia democratica, pacifista, antifascista». In questo quadro le vittime dei partigiani titini, ovviamente, non avevano cittadinanza.

Qualcosa cambiò nel 1996 quando l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, con decreto ministeriale, stabilì che i programmi dovessero «contemperare l’esigenza di fornire un quadro storico generale». Da qui la «necessità di studiare l’intero Novecento e non solo la parte che possa far piacere, senza omettere, ma anche senza dimenticare che non si fa opera di verità confondendo vittime e aguzzini».

Da quel momento anche i manuali di storia citati da Ballarin cambiano. Anche se il libro si conclude con le parole pronunciate da Giorgio Napolitano in occasione del Giorno del Ricordo del 2013: «Non abbiamo ormai detto tutto su vicende di 70 anni fa? Ha senso ritornarci sopra ad ogni ricorrenza? Ebbene, si, ha senso. Riconciliazione non significa rinuncia alla memoria». C’è ancora da scrivere e raccontare, ma mai più pagine bianche. Mai più.

Matilde Maisto – 09/02/2016

Presentazione alla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice (Roma, 23 marzo 2017)

Intervista alla Prof.ssa Maria Ballarin (Periodico Daily – 16/02/2021)