La Trieste “incompresa” nel ritratto del NY Times

Scritto da «Il Piccolo», 05/05/11
Un lunghissimo articolo e una nutrita galleria fotografica dedicata: è il generoso omaggio del «New York Times» del 29 aprile scorso a Trieste, città «incompresa e ingiustamente trascurata dalle guide turistiche». Che la stampa americana dedichi un corposo approfondimento al capoluogo giuliano non sorprende: già una celebre scrittrice e storica anglosassone, Jan Morris (che nell’articolo viene citata) cedette al fascino di Trieste e le dedicò un libro, Trieste and the meaning of nowhere, tuttora l’opera più esaustiva su Trieste mai scritta in lingua inglese.
Ma come viene vista la città oltreoceano? Adam Begley, l’autore dell’articolo sul «New York Times» intitolato Un tranquillo angolo d’Italia (in originale al link http://travel.nytimes.com/2011/05/01/travel/01trieste-italy.html?pagewanted=1&hp) per descriverla prende a prestito una frase di Italo Svevo sulla vita: «Non è né brutta né bella, ma è originale!». E puntualizza che di questa originalità, di questa diversità di Trieste rispetto a tutte le altre città d’Italia, i suoi cittadini sono consapevolmente orgogliosi. A Begley non sfugge quanto i triestini amino, con un compiacimento quasi eccessivo, la propria città: «Sono ansiosi di spiegare e fornire suggerimenti – scrive il giornalista -, perciò non sorprendetevi se in breve tempo avrete accumulato una nutrita lista di ristoranti consigliati».
Per Begley, così come per Morris, Trieste è la città ideale per un vagabondaggio senza mèta: certo non ci sono – spiega il giornalista – musei paragonabili alle grandi gallerie presenti in altre città italiane, come gli Uffizi o l’Accademia. Ma cercando con attenzione anche qui si possono trovare opere d’arte di grande valore: il giornalista cita il museo Sartorio, dove sono custoditi il trecentesco Trittico di Santa Chiara e i disegni del Tiepolo. Va peggio a piazza Unità d’Italia, i cui edifici risalenti al 18° e 19° secolo vengono descritti come «comicamente pomposi, decorati come grandi torte di matrimonio» e al Castello di Miramare, che «a uno scettico potrebbe sembrare un mucchio di dentellate zollette di zucchero».
Oltre agli immancabili riferimenti letterari – parlando di Trieste va da sé che si citino Joyce e Svevo, che con La Coscienza di Zeno secondo Begley ha scritto il più grande “comic book” del 20° secolo – l’articolo non manca di menzionare le bontà enogastronomiche locali, dalla tartara di pesce alla jota, dallo strudel alla ribolla gialla, dalla trippa al prosecco, dal refosco al caffè. Ma a colpire il giornalista americano sono i dettagli: gli stuzzichini offerti con l’aperitivo, i saluti in dialetto triestino che si scambiano i passanti per strada, l’autenticità di una città in cui il turismo è ancora relativamente poco diffuso, a differenza delle mete italiane classiche come Roma o Napoli, e dove non si è obbligati a lunghe file per accedere a monumenti e musei. Certo, c’è anche qualche stereotipo di troppo legato all’italianità. Come l’idea che la “passeggiata”, parola riportata in italiano nel testo originale, sia «l’inconfondibile momento tra la fine della giornata lavorativa e la cena in cui tutti i triestini si riversano nelle strade e nelle piazze, adocchiandosi l’un l’altro e scambiandosi saluti affettuosi»; e che sedendosi a un caffé ci si possa godere appieno questa «commedia quotidiana».