Carlo Casonato – La toponomastica quale strumento di tutela e valorizzazione

Venerdì 13 marzo 2009
In corso di pubblicazione in: La Toponomastica in Istria, Fiume e Dalmazia – Vol I – IGM 2009

La toponomastica quale strumento di tutela e valorizzazione
della comunità italiana in Slovenia
Carlo Casonato*

Sommario: 1. Alcune categorie funzionali allo studio: la toponomastica quale strumento di oppressione ovvero di valorizzazione dell’identità delle popolazioni di minoranza. – 2. Il legame fra la tutela della toponomastica ed il carattere autoctono della popolazione italiana in Slovenia: cenni di carattere storico. – 3. La disciplina della toponomastica italiana in Slovenia nel diritto internazionale: una tutela debole, fra accordi mancati, soft law ed impegni di rispetto sostanziale. – 3.1. Segue: la tutela in seno al Consiglio d’Europa. – 4. “Siamo tutti… maggioranze”: cenni sulla scarsità di disposizioni a tutela della toponomastica minoritaria (e delle minoranze tout court) nell’ordinamento dell’Unione Europea. – 5. La più forte tutela minoritaria a livello interno: il diritto costituzionale. – 6. Le norme primarie e statutarie sulla “tutela sostanziale” della toponomastica italiana. – 7. Le norme primarie e statutarie sulla “tutela procedurale” della toponomastica italiana. – 8. Considerazioni conclusive: toponomastica e tutela della comunità italiana in Slovenia.
1. Alcune categorie funzionali allo studio: la toponomastica quale strumento di oppressione ovvero di valorizzazione dell’identità delle popolazioni di minoranza.

La toponomastica, intesa quale materia che riguarda l’individuazione e l’attribuzione dei nomi dei luoghi pubblici o a fruizione pubblica ovvero la “denominazione di qualsiasi specie di luogo”[1], non è disciplina neutrale, la quale possa basarsi sempre ed esclusivamente su opzioni avalutative di carattere “scientifico”; consiste, piuttosto, in un’attività che può anche dipendere largamente da scelte discrezionali di carattere ideologico o in senso lato politico, orientate verso il conseguimento di risultati perlomeno parzialmente predeterminati. Tale profilo pare manifestarsi con evidenza nelle aree caratterizzate da un assetto linguistico plurale in cui, a seconda della politica complessiva che si intende perseguire in materia minoritaria, si potrà scegliere se (a) adottare un modello di segno “nazionalista repressivo”, tale da imporre una toponomastica assolutamente monolingue, (b) seguirne uno di segno opposto di carattere “multinazionale paritario” che ponga le diverse lingue su un piano di completa parità, (c) prevedere un sistema “a vocazione multinazionale e promozionale” di plurilinguismo imperfetto, per così dire, in cui, ad una lingua ufficiale se ne affiancano altre variamente tutelate[2].
Il carattere potenzialmente strumentale della toponomastica, utilizzata per finalità di oppressione della minoranza piuttosto che di rispettiva protezione e valorizzazione, appare manifesto anche in riferimento ad alcune delle sue funzioni. Nel momento in cui essa, oltre a svolgere compiti di conoscenza, identificazione e comunicazione dei luoghi, assolve ad una funzione culturale e simbolica tesa a celare o a rendere manifesto il collegamento fra un determinato ambito geografico ed il gruppo o i gruppi che in quell’ambito risiedono[3], la stessa può assumere finalità di negazione o di assimilazione dell’identità e delle specificità (linguistiche) delle rispettive popolazioni, piuttosto che di rispetto e valorizzazione delle stesse.
Da questi punti di vista, la toponomastica può prestarsi tanto ad operazioni volte a colpire la popolazione residente, negandone l’identità e sradicandone il collegamento linguistico e simbolico con il territorio (si pensi alle pratiche di sostituzione forzata della denominazione dei luoghi come dei nomi propri)[4], quanto a interventi di recupero, tutela e promozione della rispettiva identità attraverso il ripristino e la valorizzazione dei toponimi tradizionali. In presenza di una serie di condizioni determinate (numero dei componenti, omogeneità politica e sociale, volontà della maggioranza e della minoranza, grado di conoscenza della lingua minoritaria, concentrazione territoriale, carattere autoctono) la toponomastica può così certamente assumere valenze di tutela e promozione minoritaria, divenendo un potente strumento di rispetto e potenziamento dell’identità delle popolazioni di riferimento[5].
A questo proposito, possono anche anticiparsi le potenzialità di una procedura di individuazione dei nomi dei luoghi aperta al coinvolgimento di componenti che siano espressione della minoranza stessa. Nel momento in cui si debba decidere sui toponimi da assegnare, infatti, la parte tecnico-scientifica potrebbe essere arricchita da una dimensione in qualche modo rappresentativa della sensibilità e della volontà del gruppo che si vuole tutelare e valorizzare, al fine di rendere la scelta della denominazione pienamente rispettosa del dato linguistico tradizionale in uso[6].
Per le sue caratteristiche, peraltro, la toponomastica si presta ad assumere una funzione di protezione e valorizzazione minoritaria prevalentemente in termini di tutela di natura e su base territoriale, anziché personale, ed in riferimento alle popolazioni autoctone, in cui il collegamento fra dimensione linguistica e residenza su un determinato territorio paia (anche seppur relativamente) stabile e storicamente risalente.
Sul presupposto di una configurazione della toponomastica rispettosa del dato linguistico reale e tesa alla tutela e valorizzazione delle popolazioni di minoranza residenti sul territorio considerato, il presente contributo è volto allo studio delle forme, delle fonti e dei contenuti che tale disciplina ha assunto in Slovenia in riferimento alla comunità italiana.
2. Il legame fra la tutela della toponomastica ed il carattere autoctono della popolazione italiana in Slovenia: cenni di carattere storico
Se il carattere autoctono della popolazione insediata in un determinato territorio costituisce una delle condizioni per il riconoscimento di una toponomastica rispettosa del relativo dato linguistico, pare utile dare brevemente conto della presenza della comunità italiana nel territorio oggi corrispondente alla Repubblica di Slovenia in prospettiva diacronica.
A partire dalla fondazione di Aquileia nel II sec. a.C. e in circa sette secoli di dominio, l’impero romano in parte romanizza le popolazioni autoctone e in parte trasferisce genti italiche nelle zone istriane[7]. A seguito dei successivi periodi di dominazione della zona da parte di Bizantini, Longobardi, Franchi, della Repubblica di Venezia e degli Asburgo d’Austria, la demografia della zona istriana si presenta variegata e complessa, mantenendo comunque sempre una cospicua parte di popolazione di lingua italiana. Nei primi anni del XX secolo, così, in Istria a fronte di una lieve maggioranza relativa di serbo-croati (41%) rimane una numerosa popolazione di oltre il 36% di cittadini di lingua italiana[8]. Con la fine della prima guerra mondiale, l’Istria è italiana e Fiume diventa Stato libero (1920-1924); mentre il successivo periodo fascista, a partire dalla riforma scolastica Gentile del 1923, vede una “de-slavizzazione” linguistica forzata e l’imposizione della toponomastica e di cognomi esclusivamente in italiano[9].
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, l’Italia riesce ad espandersi assai significativamente nei Balcani[10], vincendo con metodi particolarmente brutali la resistenza opposta dalle forze locali; metodi brutali che, dalla fine della guerra e dalla liberazione della zona di confine ad opera delle forze di Tito e dell’Unione Sovietica, vengono riservati per ogni italiano che sia anche pretestuosamente sospettato di aver collaborato con il governo fascista o con le forze di occupazione tedesche. Nell’ambito del Trattato di Pace di Parigi del 1947, viene istituito il Territorio Libero di Trieste, il quale, alla pari della zona A, viene assegnato al controllo del governo militare alleato; mentre la zona B passa sotto il controllo jugoslavo[11]. Grazie alla combinazione fra le violenze perpetrate verso gli italiani, una condizione comunque di estrema povertà e di probabile futura discriminazione ed alcune previsioni dello stesso trattato di Parigi, si assiste ad una graduale e complessiva “de-italianizzazione” forzata di quelle zone, la quale condurrà la maggior parte della popolazione italiana a lasciare la zona B ed a trasferirsi entro i nuovi confini italiani ed avvierà quelli che decideranno di non optare per il trasferimento ad una condizione fortemente minoritaria[12].
Una successiva tappa, determinante ai fini della presente ricerca, è costituita dal Memorandum d’intesa di Londra del 1954, in cui, oltre a non confermare l’esistenza del Territorio Libero di Trieste[13], si decide per la cessazione del governo militare delle due zone e per l’annessione della zona A allo Stato italiano e della zona B alla Federazione jugoslava. Oltre a prevedere alcuni principi di tutela delle minoranze italiana e slava nei territori passati rispettivamente alla Jugoslavia ed all’Italia, lo Statuto speciale allegato al Memorandum dispone la salvaguardia dello sviluppo culturale e della libertà nell’uso della rispettiva lingua con le autorità amministrative e giudiziarie. Inoltre, si riconosce espressamente ai gruppi etnici minoritari residenti nel Territorio Libero di Trieste o nelle zone già A e B, ma solo ad essi, il diritto al riconoscimento di un assetto toponomastico nella propria lingua nei comuni della zona in cui il gruppo stesso rappresenti almeno un quarto della popolazione totale[14].
La rilevanza di tale passaggio consiste nel fatto che con il Memorandum d’intesa si fissa un principio che poi diverrà una costante nella storia della minoranza italiana in Slovenia, secondo cui le forme e l’intensità della tutela della comunità italiana dipendono largamente dalla zona di residenza: in particolare, quanti sono insediati nei territori corrispondenti alla ex zona B godono e godranno di uno statuto di protezione di gran lunga più efficace, nemmeno comparabile con quello dei residenti nel “resto della Slovenia”. Nonostante l’esaltazione della plurietnicità contenuta in tanta retorica della nuova Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia, infatti, gli italiani residenti al di fuori della ex zona B, e quindi non coperti dalle norme specifiche dello Statuto speciale, soffriranno di fatto di una condizione di particolare disagio, potendo invocare solo un generico e scarsamente giustiziabile principio di non discriminazione nel godimento dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, quale quello contenuto nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e richiamato dal Trattato di Pace[15].
Proseguendo in questa rapidissima ricostruzione dei passaggi storici più rilevanti in materia di toponomastica italiana in Slovenia, va certamente ricordato il Trattato di Osimo del 1975 in cui, oltre a tracciare definitivamente la frontiera fra Italia e Jugoslavia, i due Stati disposero l’abrogazione formale del Memorandum e dei relativi allegati (compreso lo Statuto speciale), impegnandosi, peraltro, a mantenere in vigore tutte le misure interne adottate a favore dei gruppi linguistici, jugoslavo ed italiano, rispettivamente minoritari.
Con l’aprirsi degli anni ’90, la Slovenia (come la Croazia) acquista l’indipendenza e viene riconosciuta come Stato sovrano, legittimato quindi a concludere in prima persona trattati internazionali. È proprio la dimensione del diritto internazionale pattizio, tuttavia, quella a cui la Slovenia (a differenza della Croazia)[16] non ha voluto espressamente ricorrere in materia di tutela (anche) della toponomastica della popolazione di lingua italiana.
3. La disciplina della toponomastica italiana in Slovenia nel diritto internazionale: una tutela debole, fra accordi mancati, soft law ed impegni di rispetto sostanziale
Dato brevemente conto delle vicende legate all’autoctonia della popolazione italiana nel territorio oggi corrispondente alla Repubblica di Slovenia (in particolare nella parte costiera) ed avendo così individuato il carattere originario e tradizionale del legame fra zona di residenza e forme di tutela della toponomastica, pare ora utile ricostruire le fonti ed i contenuti delle forme specifiche di tutela. In questa parte del lavoro, proseguendo nell’approccio storico, l’intreccio della disciplina della toponomastica italiana in Slovenia verrà analizzato partendo dalle fonti di carattere internazionale.
In vista del riconoscimento della Slovenia (e della Croazia) da parte della Comunità internazionale, l’Italia predispose un accordo teso ad una tutela omogenea della minoranza italiana che, a seguito della creazione dei due Stati si sarebbe vista divisa da un confine nazionale. Alla vigilia dell’incontro destinato alla formalizzazione del Memorandum d’intesa (15 gennaio 1992), tuttavia, la Slovenia si rifiutò di firmare l’accordo, adducendo la mancanza di una previsione che stabilisse un principio di reciprocità a favore della minoranza slovena in Italia[17]. Nonostante tale opposizione, che tuttora permane e che ha impedito la firma dell’accordo, di lì a qualche mese la Slovenia dichiarò di «subentrare, per quanto di competenza, alla ex-Jugoslavia» e di sentirsi vincolata alle disposizioni, fra gli altri, del Trattato di Osimo il quale – ricordiamo – rinviava a sua volta al rispetto della sostanza dello Statuto speciale allegato al Memorandum d’Intesa il cui art. 6 era teso a tutelare la toponomastica della minoranza italiana nei comuni sloveni della ex zona B in cui tale gruppo rappresentasse almeno un quarto della popolazione[18].
Altri documenti di carattere internazionale possono essere considerati nell’analisi in oggetto, ricordando che, dal 1992, la Slovenia è ufficialmente parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. A fronte di una sostanziale irrilevanza in proposito della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, va ricordato il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 che contiene un generale principio di eguaglianza e non discriminazione (anche) su basi linguistiche (art 26) e che impone agli Stati il divieto di privare gli individui appartenenti alle minoranze «del diritto di avere una vita culturale propria (…) o di usare la propria lingua, in comune con gli altri membri del proprio gruppo» (art. 27)[19].
A specificazione di tali principi, ma quale strumento di mero soft law, può anche ricordarsi la Dichiarazione universale dei diritti linguistici adottata, con il sostegno dell’Unesco, a Barcellona nel 1996, in cui si invitano i pubblici poteri degli Stati firmatari ad adottare tutte le misure opportune per l’applicazione dei principi di tutela delle lingue minoritarie. In riferimento alla toponomastica, l’art. 32 della Dichiarazione riconosce ad ogni comunità linguistica «il diritto di far uso dei toponimi nella lingua propria al territorio concernente, e ciò sia oralmente che per iscritto e in tutti i campi, siano essi privati, pubblici o ufficiali» oltre a «il diritto di stabilire, preservare e revisionare la toponimia autoctona [la quale] non può essere soppressa, alterata o adattata arbitrariamente, né sostituita in caso di mutamento di congiuntura politica o altro».
In ambito OSCE possono menzionarsi le Oslo Recommendations Regarding the Linguistic Rights of National Minorities del 1998 che invitano gli Stati in cui risiedano minoranze di qualche consistenza le quali richiedano una tutela in termini toponomastici a permetterla in riferimento ai luoghi pubblici[20]. Di non diverso tenore, l’Instrument for the Protection of Minority Rights[21] adottato nell’ambito della Central European Initiative il cui impegno a favore delle minoranze, ancora una volta solo politicamente vincolante, è brevemente ripreso anche nel più recente Plan of Action 2007-2009 adottato a Tirana nel novembre 2006[22].
In termini generali, per quanto detto finora, la tutela della toponomastica italiana in Slovenia si ricollega, per quanto riguarda il diritto internazionale, ad una dichiarazione di rispetto sostanziale del Trattato di Osimo ed ai principi di generica tutela linguistica previsti nel Patto sui diritti civili e politici. Ciò non toglie che anche gli altri documenti citati possano orientare, in termini peraltro di mera suasion, la Slovenia a tutelare e valorizzare al massimo i toponimi in lingua minoritaria.
Discorso parzialmente diverso va fatto, sempre in ambito di diritto internazionale, dai documenti adottati in seno al Consiglio d’Europa.
3.1. Segue: la tutela in seno al Consiglio d’Europa
La Slovenia, parte del Consiglio d’Europa dal maggio 1993, ha ratificato la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nel 1994. Com’è noto, peraltro, la CEDU prevede, ai fini della presente indagine, solo un generico principio relativo al divieto di discriminazione, il quale, inoltre, non è sicuro possa essere inteso quale fonte di un diritto indipendente ed autonomo piuttosto che clausola generale da interpretarsi solo in collegamento con le posizioni già espressamente previste nella Convenzione[23].
Di maggior interesse (almeno teorico) risulta la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, adottata nel 1992 e ratificata dalla Slovenia nell’ottobre 2000. In base alla considerazione dell’uso della lingua minoritaria, sia in privato che in pubblico, quale contenuto di un «diritto imprescrittibile, conformemente ai principi contenuti nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici delle Nazioni Unite e conformemente allo spirito della Convenzione», tale documento appronta una specifica e dettagliata serie di misure atte a tutelare e valorizzare le lingue in uso da parte di popolazioni di carattere minoritario. All’interno di questa prospettiva, la Carta prevede espressamente all’art. 10 (2° comma, lett. g) che le parti si impegnino a permettere e promuovere «l’uso o l’adozione, se del caso congiuntamente con l’adozione della denominazione nella(e) lingua(e) ufficiale(i), di forme tradizionali e corrette della toponomastica nelle lingue regionali o minoritarie». Ed al riguardo, va pacificamente ritenuto come l’italiano in Slovenia soddisfi tutte le condizioni per essere considerato “lingua minoritaria”[24].
Nonostante tali previsioni, peraltro, la Carta «mira alla protezione e alla promozione delle lingue regionali o minoritarie, e non delle minoranze linguistiche» (preambolo) e, quindi, anche se si propone di migliorare la situazione delle persone che parlano tali lingue, con l’obiettivo di sviluppare il pluralismo e la ricchezza culturale europea, non va considerato di per sé uno strumento a diretta tutela delle minoranze[25].
In termini generali, inoltre, la Carta ha avuto una scarsa incidenza, non conducendo, nonostante la previsione di meccanismi per il monitoraggio dell’applicazione dei suoi principi da parte di un comitato di esperti chiamato a valutare le relazioni dei singoli Stati – su cui infra –, all’individuazione di standard di tutela minoritaria generalmente condivisi e concretamente applicati[26].
Al fine di predisporre, allora, una disciplina organica, in grado di condizionare maggiormente, se non proprio vincolare giuridicamente, gli Stati europei, il Consiglio d’Europa rivolse i propri sforzi alla stesura della Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali.
Tale atto, specifico strumento a tutela dei gruppi minoritari, adottato nel 1995 e ratificato dalla Slovenia nel marzo del 1998, prevede disposizioni specifiche in materia di toponomastica. Impegnando gli Stati firmatari ad adottare «misure adeguate in vista di promuovere, in tutti i settori della vita economica, sociale, politica e culturale, una eguaglianza piena ed effettiva tra le persone appartenenti ad una minoranza nazionale e quelle appartenenti alla maggioranza» (art. 4), la Convenzione mira a «promuovere le condizioni adatte a permettere alle persone appartenenti a minoranze nazionali di conservare e sviluppare la loro cultura, nonché di preservare gli elementi essenziali della loro identità, cioè (…) la loro lingua, le loro tradizioni ed il loro patrimonio culturale» (art. 5). Nel solco di tali principi, il documento prosegue richiamando le parti all’impegno di «riconoscere ad ogni persona appartenente ad una minoranza nazionale il diritto di utilizzare liberamente e senza ostacoli la propria lingua minoritaria in privato come in pubblico, oralmente e per iscritto» (art. 10). Come detto, oltre al rispetto dei nomi e cognomi nella lingua minoritaria, la Convenzione-quadro, con specifico riferimento alla toponomastica, detta: «le Parti si impegnano a riconoscere ad ogni persona appartenente ad una minoranza nazionale il diritto di presentare nella propria lingua minoritaria insegne, iscrizioni ed altre informazioni di carattere privato esposte alla vista del pubblico. (…) Nelle regioni tradizionalmente abitate da un numero rilevante di persone appartenenti ad una minoranza nazionale, le Parti, nel quadro del loro sistema legislativo, non esclusi, se del caso, accordi con altri Stati, si sforzeranno, tenendo conto delle loro condizioni specifiche, di presentare le denominazioni tradizionali locali, i nomi delle strade ed altre indicazioni topografiche destinate al pubblico, anche nella lingua minoritaria, allorché vi sia una sufficiente domanda per tali indicazioni» (art. 11).
Se, quindi, la disposizione si occupa specificamente di toponomastica in lingua minoritaria e si esprime in termini di dovere (utilizzando frequentemente la formula «shall…»), va rilevata l’estrema cautela del suo contenuto, il quale, riprendendo i due requisiti, oggettivo (numero) e soggettivo (volontà), già espressi nelle Raccomandazioni di Oslo in ambito OSCE, pare lasciare agli Stati amplissima discrezionalità riguardo sia all’an che al quomodo della tutela[27].
Nel riprendere e nel rielaborare valori e principi già contenuti in altri documenti internazionali, inoltre, la Convenzione-quadro – anche per il suo carattere di “norma-cornice” – contiene disposizioni prevalentemente programmatiche non direttamente applicative né giuridicamente vincolanti[28].
Nonostante tali profili di debolezza, va ricordato come sia la Carta europea delle lingue regionali e minoritarie che la Convenzione quadro siano dotate di un meccanismo di monitoraggio che impone alle Parti, periodicamente e quando ne faccia richiesta il Comitato dei Ministri, di inviare al segretario generale del Consiglio d’Europa un report riguardo allo stato di applicazione dei principi accolti negli Atti. Grazie all’assistenza di un Advisory Committee, il Comitato dei Ministri valuta lo stato di attuazione ed il grado di tutela minoritaria effettiva, rivolgendo agli Stati pareri che hanno assunto un rilievo politico e diplomatico di primaria importanza. Per ragioni di ordine espositivo, ne tratteremo dopo aver dato conto della scarsità di fonti europee e della ricchezza di fonti nazionali che in Slovenia trattano della tutela della toponomastica in lingua italiana.
4. “Siamo tutti … maggioranze”: cenni sulla scarsità di disposizioni a tutela della toponomastica minoritaria (e delle minoranze tout court) nell’ordinamento dell’Unione Europea
La Slovenia è membro dell’Unione Europea dal maggio del 2004; tale livello, quindi, potrebbe costituire un altro punto di riferimento per la tutela della toponomastica italiana.
Se il rispetto delle minoranze costituisce uno dei criteri politici di Copenhagen necessari per l’adesione all’Unione Europea da parte di nuovi Stati membri, lo stesso principio non si rintraccia all’interno del diritto primario né fra quelle che possono essere individuate in termini di tradizioni costituzionali comuni. In sintesi, ed al di là di dichiarazioni generali e generiche, il diritto comunitario non offre alcun appiglio espresso per la protezione e valorizzazione delle minoranze linguistiche al proprio interno né, tanto meno, per un assetto toponomastico rispettoso delle rispettive istanze; con il paradosso che, avendo recepito nell’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea tutti i criteri di Copenhagen tranne – appunto – quello della tutela delle minoranze, la stessa Unione Europea non rispetterebbe i requisiti per poter accedere a se stessa[29].
Quanto può desumersi in materia si riferisce solo al rispetto per le diversità culturali e al principio di non discriminazione. Con il Trattato di Maastricht del 1993, così, si è inserito un generale obbligo per gli Stati membri di «rispettare la diversità nazionale e regionale», clausola che però si è escluso potesse indicare direttamente una tutela minoritaria. Ed anche il Trattato di Amsterdam (1999) non va oltre l’introduzione di un divieto di discriminazione in base alla nazionalità, alla razza o all’origine etnica[30].
Volgendo lo sguardo ai futuri, possibili – seppur ormai remoti – sviluppi costituzionali, né la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europa né il Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa contengono nulla più che un divieto di discriminazione in base all’appartenenza ad una minoranza nazionale (art. 21 della Carta) ed un rispetto per la diversità culturale e linguistica (art. 22 della Carta e 3.3 del Trattato)[31].
In estrema sintesi, quindi, tanto de jure condito quanto de jure condendo, può dirsi che il principio di protezione e valorizzazione delle minoranze, ancor prima che della loro espressione linguistica in termini di toponomastica tradizionale, non fa parte dell’ordinamento dell’Unione Europea; capovolgendo la retorica di chi sostiene che in Europa siamo tutti minoranze, da un punto di vista giuridico, si potrebbe dire che siamo tutti… maggioranze[32].
Ciò non toglie – come già accennato e come vedremo meglio infra – che la volontà della Slovenia di accedere all’Unione, e quindi la necessità di onorare i criteri di Copenhagen comprensivi del rispetto per le minoranze, sia stato uno dei propulsori fondamentali verso l’adozione di apparati normativi di tutela minoritaria e, soprattutto, verso la loro implementazione con misure applicative efficaci, le quali hanno conferito portata e significato concreti a disposizioni che, in altre esperienze dell’area balcanica, restano sovente a livello di mero enunciato.
5. La più forte tutela minoritaria a livello interno: il diritto costituzionale
Se in assenza di un accordo bilaterale con l’Italia, tanto il diritto internazionale quanto quello sovranazionale paiono, perlomeno in termini strettamente giuridici, assai deboli nel proteggere la minoranza italiana in Slovenia e la rispettiva toponomastica, elementi certamente di maggior rilievo si ritrovano nel diritto interno, a partire, anche se non ancora in forma esplicita, da quello di rango costituzionale.
La Costituzione della Repubblica slovena del 1992 affronta il tema della minoranza italiana (e di quella ungherese) inquadrandolo all’interno di un assetto di generale tutela e valorizzazione delle rispettive caratteristiche[33]. L’art. 5, così, proclama che la Repubblica «tutela e garantisce il diritto delle comunità nazionali autoctone italiane e ungheresi», mentre in campo linguistico, si prevede che, a fianco della lingua ufficiale slovena «nei territori dei comuni in cui le comunità nazionali italiane e ungheresi risiedono, la lingua ufficiale è anche l’italiano o l’ungherese» (art. 11)[34]. Nonostante la presenza di altre norme costituzionali che entrano maggiormente nel dettaglio degli strumenti di tutela minoritari[35], non esiste alcuna norma specifica dedicata al diritto di esprimere la toponomastica tradizionale in lingua italiana. Sulla scorta di parte della stessa dottrina slovena, tuttavia, pare certamente corretto applicare un criterio interpretativo che permetta di enucleare dal principio della coufficialità previsto all’art. 11 la regola secondo cui anche la dimensione toponomastica italiana trova un riconoscimento diretto, anche se non esplicito, a livello costituzionale[36]. Il diritto della comunità italiana di esprimere la propria identità anche attraverso la dimensione toponomastica pare quindi principio desumibile non solo dallo spirito della Costituzione slovena. In quanto tale, tuttavia, necessita di atti che ne specifichino contenuto, portata, limiti.
Un primo rilievo, in proposito, riguarda il rapporto fra l’art. 5 della Costituzione e lo stesso articolo dello Statuto speciale allegato al Memorandum d’intesa del 1954 in cui – ricordiamo – si riconosce espressamente che le iscrizioni sugli enti pubblici e i nomi delle località e delle strade della ex zona B dove gli appartenenti al gruppo etnico italiano costituivano almeno un quarto della popolazione siano anche in lingua italiana. Tale disposizione, anche se non espressamente ratificata in alcun successivo trattato bilaterale, fu oggetto di una dichiarazione collegata al Trattato di Osimo in cui la Slovenia si impegnava a mantenere in vigore le misure già adottate a favore del gruppo linguistico italiano. Da un punto di vista sostanziale, quindi, si può sostenere in via interpretativa come la toponomastica italiana in quell’area potrebbe far parte dei diritti della comunità autoctona che la Repubblica di Slovenia “tutela e garantisce”, e che ha forse costituzionalizzato ai sensi dell’art. 5 della sua Costituzione.
Riguardo alla determinazione territoriale all’interno della quale tali diritti possono esercitarsi, è utile fare un riferimento alla legge sulla formazione dei municipi e sulla determinazione dei loro territori, adottata nel 1994. Tale atto determina i criteri per individuare le “aree etnicamente miste”, le quali, per quanto riguarda il gruppo italiano, comprendono le zone così definite negli statuti dei comuni di Capodistria, Isola e Pirano[37].
A dare applicazione concreta alla tutela della lingua italiana in riferimento alla toponomastica possono citarsi altre fonti di rango primario le quali agiscono a livello tanto sostanziale quanto procedurale.
6. Le norme primarie e statutarie sulla “tutela sostanziale” della toponomastica italiana
La base da cui partire per esaminare le norme che prevedono, da un punto di vista sostanziale, la tutela della toponomastica italiana, consiste nella recente legge sull’uso pubblico della lingua slovena, approvata nel luglio del 2004. In tale atto normativo si conferma il principio – prima solo desunto attraverso il procedimento interpretativo di cui si è detto – secondo cui la lingua slovena è quella ufficiale e costituisce «la lingua della comunicazione scritta e orale in tutte le sfere della vita pubblica, tranne l’italiano e l’ungherese che sono lingue ufficiali in conformità alla Costituzione, e quando le previsioni di trattati internazionali vincolanti per la Slovenia specificamente permettono l’uso anche di altre lingue» (art. 1). In riferimento alla perdurante validità sostanziale dello Statuto speciale del Memorandum d’intesa, quindi, può dirsi che tale legge ribadisca la regola della coufficialità, secondo cui nelle (sole) zone etnicamente miste l’uso dell’italiano, e della relativa toponomastica, segua le stesse regole dell’uso dello sloveno, sganciando peraltro la tutela dal requisito oggettivo della consistenza numerica del gruppo minoritario, prevista nello Statuto speciale in almeno un quarto della popolazione totale. Tale principio è d’altro canto espresso nel successivo art. 3 secondo cui «nei territori dei comuni dove vivono le comunità nazionali italiane e ungheresi, l’uso pubblico dell’italiano e dell’ungherese come lingue ufficiali deve essere garantito nel modo disciplinato in questa legge per l’uso pubblico dello sloveno, in conformità alle previsioni delle leggi di settore».
L’art. 20, inoltre, dispone che «gli avvertimenti pubblici, le scritte e le informazioni orali, e le proclamazioni devono essere fatti in Sloveno e, se necessario o oggetto di consuetudine, anche in altra lingua». Comprendendo nell’oggetto di tale disposizione (avvertimenti e scritte pubbliche, proclamazioni) anche la toponomastica e interpretando in senso ampio il requisito della necessità anche in vista della “consuetudine” di parlare italiano nelle zone mistilingue, può concludersi confermando il principio desumibile dalla Costituzione slovena e ripreso a livello di fonti primarie secondo cui nelle zone etnicamente miste, individuate negli Statuti dei comuni di Capodistria, Isola e Pirano, la toponomastica vada espressa anche in lingua e secondo le denominazioni italiane.
All’interno di questo quadro generale e proseguendo in un’analisi che va dal generale al particolare, viene ora in rilievo la disciplina che i singoli Statuti dei comuni entro i quali sono riconosciute zone etnicamente miste destina alla toponomastica italiana[38].
Anzitutto, deve darsi conto della competenza comunale in materia di toponomastica (anche) minoritaria; competenza già prevista nel 1980 dalla legge sui nomi e la registrazione di insediamenti, strade ed edifici in cui si attribuisce in via generale all’assemblea comunale «la denominazione, ridenominazione (…) di insediamenti e strade e della definizione stessa dell’area di insediamento», e confermata dalla legge sulle unità di autogoverno locale approvata nel 1993, che dispone che «nei territori abitati da componenti delle comunità etniche italiane e ungheresi, i comuni danno effetto ai diritti speciali delle comunità etniche» (art. 5).
Su queste basi, lo Statuto della città di Capodistria (2000) ha dotato il comune di una denominazione bilingue: «Mesta Obcina Koper – Comune Città di Capodistria». L’atto, inoltre, designa un quadro di generale protezione e valorizzazione della componente italiana disponendo che «in armonia con la Costituzione, con i principi dell’ordinamento giuridico dello Stato e con il presente statuto, il Comune assicura ai cittadini appartenenti alla Comunità Nazionale Italiana autoctona una posizione tale da consentire la conservazione e l’affermazione della propria identità nazionale» (art. 6). In materia linguistica, l’art. 92 afferma che «agli appartenenti alla Comunità Nazionale Italiana è garantito il diritto di manifestare liberamente la propria appartenenza nazionale, di esprimere e sviluppare la propria cultura e di usare la propria lingua»; e, finalmente, in materia toponomastica, lo Statuto prosegue specificando che «le insegne pubbliche nel territorio nazionalmente misto sono bilingui» (art. 117). Il c.d. decreto comunale sul bilinguismo visivo del 1998 (decreto sulla attuazione pubblica del bilinguismo nei territori etnicamente misti) precisa che «tutte le scritte figuranti sulle insegne e tabelle stradali, sulla segnaletica stradale esplicativa, sulle tabelle recanti i nomi delle vie, ed inoltre, le scritte esposte nelle stazioni e nelle fermate dei mezzi di trasporto pubblici (…) come pure all’interno dei veicoli adibiti al trasporto pubblico urbano, fatti salvi i nomi delle località che non rientrino nei territori nazionalmente misti» (art. 6) devono essere bilingui (art. 5); dove per scritta bilingue, si intende quella «redatta in lingue slovena ed italiana, con caratteri di uguale forma e dimensioni; la realizzazione grafica può essere diversa in ciascuna delle due lingue, ma deve occupare uguale spazio e non deve far sì che il testo in una delle due lingue sia in posizione subordinata a quello nell’altra» (art. 2) [39].
Accanto a tale apparato normativo, l’art. 118 dello Statuto di Capodistria impone un vasto riconoscimento e utilizzo da parte pubblica della toponomastica italiana: «nell’esercizio deIle rispettive attività, gli organi dell’amministrazione comunale ed altri organi del comune, come pure quelli delle altre comunità dell’autonomia locale, le aziende e gli enti pubblici che esplicano funzioni pubbliche, sono tenuti a fare uso dei nomi delle vie e degli abitati, situati nei territori nazionalmente misti, nelle versioni rispettivamente in lingua slovena ed in lingua italiana».
Anche lo Statuto della città di Isola (1995) fissa una denominazione del comune bilingue: Obcina Izola e Comune di Isola. Richiamandosi ai principi costituzionali citati ed a quelli delle leggi nazionali, inoltre, è prevista una tutela ampia della Comunità Nazionale Italiana autoctona, specificando che «nel territorio nazionalmente misto (bilingue) comprendente la città di Isola e le località di Dorava e Jagodje, nella vita pubblica e sociale le lingue slovena e italiana sono parificate». Pur in assenza di disposizioni espressamente dedicate alla toponomastica minoritaria, quindi, il principio di coufficialità certamente copre anche tale dimensione linguistica.
Lo Statuto del comune di Pirano, anch’esso del 1995, dedica un’intera parte alla Comunità Nazionale Italiana ed ai suoi componenti. Per quanto più interessa in questa sede, si garantiscono i diritti speciali in generale, ed in particolare quello ad esprimere e sviluppare la propria identità nazionale e quello ad usare liberamente la propria lingua (art. 65). Grazie a tale formula di rinvio, va certamente ritenuta tutelata anche la dimensione toponomastica italiana.
7. Le norme primarie e statutarie sulla “tutela procedurale” della toponomastica italiana
Oltre a prevedere norme che dispongano una tutela sostanziale, in forma espressa o implicita, della toponomastica in lingua e secondo denominazioni italiane, i diversi livelli normativi sloveni trattano anche di una procedura tesa ad individuare concretamente i nomi tradizionali da attribuire ai luoghi pubblici; procedura che, al fine di accertare con correttezza e precisione le singole denominazioni, oltre che di tener conto della “sensibilità” minoritaria, contemplano la partecipazione diretta di componenti della comunità nazionale italiana. In questa prospettiva, i meccanismi di rappresentanza politica della popolazione italiana all’interno delle assemblee comunali dotate di competenza in materia toponomastica offrono procedure partecipative che possono assicurare sia forme di più compiuta democrazia, a monte della decisione, che risultati più condivisi e quindi efficaci, a valle[40].
La prima disposizione (generale) a cui far riferimento, in questa logica, consiste nell’art. 9 della già citata legge sulle unità di autogoverno locale che, fra l’altro, lega la determinazione del nome del comune agli aspetti storici, i quali, in questa prospettiva, andranno accertati da parte di soggetti che possano essere depositari autentici della dimensione tradizionale (anche minoritaria).
Già l’art. 8 della legge sui nomi e la registrazione di insediamenti, strade ed edifici del 1980 specifica, in questo senso, che nelle zone miste la comunità minoritaria partecipa al processo decisionale relativo alla denominazione di insediamenti e strade. Stante la competenza comunale in materia di toponomastica minoritaria, inoltre, pare utile riferire della legge sulle elezioni amministrative e sulle autonomie locali la quale, sempre nell’ottica procedurale qui prescelta, impone che il 10% dei seggi dei consigli delle autonomie locali in cui risiedono tradizionalmente le Comunità nazionali autoctone, siano riservati a loro rappresentati diretti.
Una collegata dimensione della rappresentanza italiana locale in Slovenia, nell’ottica di tutela della toponomastica di natura rappresentativa e nella prospettiva procedurale qui prescelta, è riferibile alle Comunità autogestite della nazionalità locale. Tali enti di autogoverno sono organismi di diritto pubblico che trovano la loro base specifica e fonte di legittimazione nell’art. 64 della Costituzione come attuato dalla legge sulle comunità autogestite delle nazionalità. Costituiti a livello comunale, tali organismi sono volti alla tutela degli interessi italiani nei Comuni di Capodistria, Isola e Pirano[41].
In termini concreti, a Capodistria, le Comunità autogestite della nazionalità locale devono esprimere un parere obbligatorio e vincolante sulla toponomastica degli abitati, delle vie e delle piazze nei territori nazionalmente misti, oltre che, in generale, sulla regolamentazione del bilinguismo visivo (art. 97 dello Statuto)[42]. Se lo Statuto della città di Isola prevede che la Comunità autogestita della nazionalità italiana si occupi in generale dei diritti particolari dei cittadini di lingua italiana, oltre che della realizzazione dei rispettivi interessi (art. 43), il comune di Pirano prevede che la stessa Comunità autogestita debba esprimere un parere vincolante e obbligatorio sulle decisioni relative alla toponomastica e all’uso dei nomi locali nell’ambito del territorio nazionalmente misto (art. 66).
8. Considerazioni conclusive: toponomastica e tutela della comunità italiana in Slovenia
Il gruppo etnico italiano in Slovenia conta circa duemiladuecento componenti, lo 0,11% della popolazione complessiva[43]. A fronte dell’esiguità di tale gruppo e della coesistenza di una pluralità di gruppi etnici minoritari, tale comunità è sostenuta da un apparato giuridico di tutela che è parso a taluno assai completo ed esemplare[44].
Certamente, una serie di congiunture favorevoli ha stimolato il costituente sloveno prima, il legislatore nazionale e “statutario” (in riferimento al livello comunale) poi ad adottare un assetto giuridico-costituzionale improntato ad una significativa tutela della componente italiana. A giocare in questo senso, possono richiamarsi, fra gli altri fattori, le influenze internazionali di carattere politico-diplomatico, prima fra tutte l’esigenza di rispettare i criteri di Copenhagen per l’adesione alla Unione Europea, la rilevanza economica e politica dell’Italia (Stato-patria della minoranza oltre il confine sloveno), la presenza del gruppo etnico sloveno in territorio italiano.
Tali ed altre spinte hanno condotto la Slovenia ad approntare un diritto della minoranza italiana (e ungherese) che si può articolare e riassumere sia dal punto di vista del contenuto che delle fonti.
Anzitutto, la Costituzione slovena attribuisce alla popolazione italiana (ed ungherese) una serie di diritti speciali ed aggiuntivi rispetto a quelli (assai più deboli) previsti per gli altri gruppi minoritari (artt. 5 e 64), all’interno dei quali spicca, ai fini della presente indagine, la coufficialità della lingua italiana nelle zone etnicamente miste (Koper-Capodistria, Izola-Isola, Piran-Pirano). Come sviluppata dalla normativa di rango primario e dagli Statuti dei tre comuni interessati, tale principio ha condotto, sempre nelle sole zone miste ma a prescindere dalla consistenza numerica della minoranza, ad una equiparazione dello sloveno e dell’italiano che sfocia in un modello toponomastico bilingue quasi perfetto in cui l’unica differenza, presente solo in alcune aree, consiste nella precedenza della scritta in sloveno rispetto a quella italiana (Legge sull’uso pubblico dello sloveno del 2004). In termini strumentali rispetto a tale principio di tutela sostanziale, è stata anche prevista una procedura di codecisione che, sempre nelle zone miste, prevede, attraverso pareri anche obbligatori e vincolanti, la partecipazione di rappresentanti delle Comunità autogestite nazionali italiane alla concreta individuazione delle denominazioni a livello locale.
Sulla base di tale disciplina, va dato atto che, a differenza della ancora debole tutela di altri gruppi minoritari (bosniaci, croati, serbi, roma), il rispetto e la valorizzazione della componente italiana, anche nella dimensione toponomastica, pare elevata. Su questa linea, la più recente risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa in riferimento al monitoraggio dell’implementazione della Convenzione-quadro (14 giugno 2006), ha concluso che «the [Hungarians and] Italians continue to enjoy a high level of protection, and a climate of mutual understanding characterises the relations between these minorities and the majority»[45].
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Abstract
This paper will provide an overview of the protection of the Italian community in Slovenia by means of toponymy. Using a historical approach, the Author analyses the (weak) role of International law as opposed to the (stronger) position of domestic Slovenian law. Constitutional and statutory law provides for an efficient framework for the protection of Italian toponymy, while municipality law (in particular the “statuti comunali” in Koper-Capodistria, Izola-Isola, Piran-Pirano) fixes an almost complete and actual regime of bilingualism in the ethnically-mixed areas. As a result, the Italian community in Slovenia may be regarded as an efficiently protected minority in terms of both procedural and substantive linguistic instruments.

* Professore straordinario di Diritto costituzionale comparato nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento.

[1] Per gli aspetti definitori collegati alla dimensione giuridica, oltre al contributo di C.A. Mastrelli in questo stesso volume, si vedano G. de Vergottini, Profili giuridici della toponomastica nella provincia di Bolzano, in Dir. soc., 1986, p. 651 e s.; M. Pallottino, Toponomastica, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, p. 739 ss. La più ampia definizione citata è ripresa dalla Corte costituzionale italiana, sentenza n. 28 del 2 aprile 1964 in cui, fra l’altro, si dibatte proprio dell’estensione da dare al termine toponomastica.

[2] La modellistica a cui ci ispiriamo è tratta da R. Toniatti, Minoranze e minoranze protette: modelli costituzionali comparati, in T. Bonazzi, M. Dunne (a cura di), Cittadinanza e diritti nelle società multiculturali, Bologna, 1994, p. 292 ss.

[3] Al riguardo, v. il contributo di V. Piergigli in questo stesso volume.

[4] Si pensi, ad esempio, all’attività di “italianizzazione” compiuta dal senatore Tolomei in Alto Adige nella prima metà del XX sec.

[5] Fra le condizioni necessarie ad una tutela in termini di toponomastica delle popolazioni di minoranza, se ne possono richiamare di comuni ad altre forme di protezione (fra cui il numero dei componenti, l’omogeneità e la coesione politica e sociale, la volontà della maggioranza oltre quella della minoranza) e di specifiche allo strumenti in oggetto (la presenza e la conoscenza fra i componenti della popolazione minoritaria di una lingua o di un idioma proprio, la concentrazione in un determinato territorio, la stabilità del collegamento con il territorio, il carattere autoctono). Fra gli altri, cfr. V. Piergigli nel presente volume. In termini più generali, J. Woelk, La tutela giuridica delle minoranze: modelli, strumenti e prospettive, in E. Pföstl (a cura di), Valorizzare le diversità: tutela delle minoranze ed Europa multiculturale, Roma, 2003, p. 59.

[6] Su questo aspetto, vedremo, l’importanza che assume il livello comunale nell’esercitare competenze sulla toponomastica. Espressamente, inoltre, lo Statuto della città di Capodistria dispone che per il tramite dei consiglieri comunali rappresentanti della Comunità Nazionale Italiana, il Consiglio della Comunità Nazionale Autogestita deve esprimere il consenso agli atti riguardanti la toponomastica degli abitati, delle vie e delle piazze situati nei territori misti del comune. Cfr. infra.

[7] Ben oltre la successiva brutale sintesi, si vedano, fra gli altri, B. Benussi, L’Istria nei suoi due millenni di storia, Trieste, 1924; V. D’Alessio, Il cuore conteso. Il nazionalismo in una comunità multienica. L’Istria asburgica, Napoli, 2003.

[8] Si veda G. Perselli, I censimenti della popolazione dell’Istria, con Fiume e Trieste, e di alcune città della Dalmazia tra il 1850 e il 1936, Trieste, 1993.

[9] Si veda P. Romano, La questione del confine orientale e le due guerre mondiali, in V. Piergigli (a cura di), L’autoctonia divisa. La tutela giuridica della minoranza italiana in Istria, Fiume e Dalmazia, Padova, 2005, p. 230 ss. che ricorda l’ordinanza del prefetto di Pola in cui si scrive che «per togliere gli storpiamenti di cognomi perpetrati dai politicanti slavi negli ultimi decenni, ho disposto che i cognomi degli abitanti di questo comune vengano scritti come qui sotto elencati (…)».

[10] I Patti di Roma del 1941, firmati con il Regno di Croazia, stabilivano che Lubiana, Ragusa, Cattaro, Spalato e Sebenico passassero all’Italia; la Dalmazia, inoltre, diventa un governatorato italiano. Come per le successive considerazioni, il riferimento va, fra gli altri, a P. Romano, La questione del confine orientale e le due guerre mondiali, cit., p. 233.

[11] Pur senza pregiudizio per la sovranità dello stato italiano. Per quanto più da vicino interessa in questa sede, nella zona B è insediata quella che è oggi divenuta una minoranza di lingua italiana.

[12] Circa 300.000 sarebbero stati gli italiani trasferitisi, con casi come quelli della città di Pola in cui 28.000 abitanti, su un totale di 30.000 di residenti espatriarono in pochi mesi. Complessivamente, l’Istria perse circa metà della sua popolazione.

[13] Il Territorio Libero di Trieste non si consolidò mai in quanto tale, a motivo del mancato accordo in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla nomina del rispettivo governatore.

[14] «Nella zona sotto l’amministrazione italiana le iscrizioni sugli enti pubblici ed i nomi delle località e delle strade saranno nella lingua del gruppo etnico jugoslavo, oltre che nella lingua dell’Autorità amministratrice, in quei distretti elettorali del Comune di Trieste e negli altri Comuni nei quali gli appartenenti al detto gruppo etnico costituiscono un elemento rilevante (almeno un quarto) della popolazione; nei Comuni della zona sotto amministrazione jugoslava, dove gli appartenenti al gruppo etnico italiano costituiscono un elemento rilevante (almeno un quarto) della popolazione, tali iscrizioni e tali nomi saranno in italiano, oltre che nella lingua della Autorità Amministratrice». Si veda lo Statuto speciale, allegato al Memorandum d’intesa fra i governi di Italia, Regno Unito, Stati Uniti, Jugoslavia concernente il Territorio Libero di Trieste, siglato a Londra il 5 ottobre 1954, riportato da L. Paladin, Commento allo Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia, Udine, 1969, p. 265 ss., reperibile anche in http://www.trattatodiosimo.it/memorandum.htm.

[15] Al riguardo, si vedano M. Mancini, La tutela della minoranza italiana in Slovenia e Croazia: lo stato dei rapporti internazionali, in V. Piergigli (a cura di), L’Autoctonia divisa. La tutela giuridica della minoranza italiana in Istria, Fiume e Dalmazia, cit., p. 265; G. Conetti, Aspetti giuridici delle relazioni dell’Italia con la Slovenia e la Croazia, in T. Favaretto, E. Greco (a cura di), Il confine riscoperto, Milano, 1997, p. 51 ss.

[16] Sulla tutela delle toponomastica italiana in Croazia, si veda il contributo di F. Palermo in questo stesso volume.

[17] Si vedano le annotazioni storiche in M. Mancini, La tutela della minoranza italiana in Slovenia e Croazia: lo stato dei rapporti internazionali, cit., p. 266.

[18] In generale, cfr. I. Di Carlo, La questione delle minoranze nelle procedure di aggiornamento degli accordi di Osimo, in La comunità internazionale, 1996, p. 317 ss.

[19] Nel 1993, inoltre, la Slovenia ha ratificato il primo protocollo facoltativo allo stesso Patto che permette ai cittadini degli stati membri di investire il Comitato dei diritti dell’uomo delle questioni relative alle violazioni dei diritti enunciati nel Patto: cfr. M. Mancini, La tutela della minoranza italiana in Slovenia e Croazia: lo stato dei rapporti internazionali, cit., p. 278. In questa sede si può anche ricordare la Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche approvata dalla Commissione dei diritti umani nel dicembre 1992, la quale è stata considerata un documento di attuazione ed approfondimento dell’art. 27 del Patto oltre che un primo importante mutamento di rotta nella considerazione delle minoranze in termini di “elemento dinamico indispensabile per lo sviluppo complessivo della società in cui vivono” in un’ottica di non più “mera pacificazione dei conflitti e di preventiva circoscrizione dei latenti focolai di insurrezione”: E. Pföstl, Introduzione. Il ritorno al multiculturalismo, in E. Pföstl (a cura di), Valorizzare le diversità: tutela delle minoranze ed Europa multiculturale, cit., p. 20.

[20] Si tratta dell’art. 3: «In areas inhabited by significant numbers of persons belonging to a national minority and when there is sufficient demand, public authorities shall make provision for the display, also in the minority language, of local names, street names and other topographical indications intended for the public». L’intero documento in http://www.osce.org/documents/hcnm/1998/02/2699_en.pdf.

[21] L’art. 13 di tale documento dispone: «In conformity with their national legislation States may allow, where necessary through bilateral agreements with other interested States, in particular with neighbouring States, the display of bilingual or plurilingual local names, street names and other topographical indications in areas where the number of persons belonging to a national minority reaches, according to the latest census or other methods of ascertaining its consistency, a significant level. The display of signs, inscriptions or other similar information of private nature also in the minority language should not be subject to specific restrictions, other than those generally applied in this field».

[22] Al proposito, si veda il sito http://www.ceinet.org/download/CEI_PoA_2007-2009.pdf.

[23] Con specifico riferimento alle tematiche minoritarie, fra gli altri, cfr. E. Pföstl, Introduzione. Il ritorno al multiculturalismo, cit., p. 21. In generale, M. de Salvia, Compendium della CEDU – Le linee guida della giurisprudenza relativa alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Napoli, 2000; C. Defilippi, D. Bosi, R. Harvey (a cura di), La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali commentata ed annotata, Napoli, 2006.

[24] L’art. 1 della Carta definisce lingue regionali o minoritarie quelle usate tradizionalmente sul territorio di uno Stato dai cittadini di detto Stato che formano un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione dello Stato; e che siano diverse dalla(e) lingua(e) ufficiale(i) di detto Stato; «questa espressione non include né i dialetti della(e) lingua(e) ufficiale(i) dello Stato né le lingue dei migranti». A scansare ogni dubbio, inoltre, si ricordi come la Slovenia abbia dichiarato l’italiano, ai sensi della Carta, lingua regionale o minoritaria: M. Mancini, La tutela della minoranza italiana in Slovenia e Croazia: lo stato dei rapporti internazionali, cit., p. 279.

[25] «Per questo motivo» prosegue il punto 11 del preambolo della Carta «l’enfasi è posta sulla dimensione culturale e sull’uso di una lingua minoritaria o regionale in tutti gli aspetti della vita dei suoi parlanti. La Carta, peraltro, non stabilisce nessun diritto individuale o collettivo per i parlanti». Al riguardo, si veda J. Woelk, La tutela giuridica delle minoranze: modelli, strumenti e prospettive, in E. Pföstl (a cura di), Valorizzare le diversità: tutela delle minoranze ed Europa multiculturale, cit., p. 85

[26] E. Pföstl, Introduzione. Il ritorno al multiculturalismo, cit., p. 28

[27] Cfr. R. Toniatti, La tutela delle minoranze linguistiche: il paradigma pluralista della nuova democrazia europea, in AA.VV., Le rôle des languages minoritaires dans la vie publique, Actes du Séminaire di Saint-Vincent, 2000, p. 42 in cui, dopo aver illustrato le norme in materia toponomastica contenute nella Convenzione quadro, nella Carta europea per le lingue minoritarie ed in ambito OSCE conclude: “La diversità di formulazione di questi testi conferma che, quando si tratta di norme giuridiche, il paradigma del pluralismo culturale cede il passo al ben più consolidato meccanismo decisionale maggioritario ma al prezzo di una garanzia giuridica molto meno consistente”.

[28] Cfr. J. Woelk, , La tutela giuridica delle minoranze: modelli, strumenti e prospettive, cit., p. 87 s.

[29] Del rispetto per le minoranze come di un «articolo per l’esportazione ma non per l’uso domestico» parla B. De Witte, Politics vs Law in the Eu Approach to Ethnic Minorities, in J. Zielonka (ed.), Europe Unbound. Enlarging and Reshaping the Boundaries of the European Union, Routledge, 2002. D’altro canto, si vedano anche il rispetto dei diritti delle persone appartenenti ad una minoranza ed il divieto di discriminazione fondata sull’appartenenza ad una minoranza nazionale, previsti all’interno del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa.

[30] Sul rapporto fra UE e minoranze, oltre ai già citati J. Woelk, , La tutela giuridica delle minoranze: modelli, strumenti e prospettive, cit., p. 93 ss. e B. De Witte, Politics vs Law in the Eu Approach to Ethnic Minorities, si vedano P. Hilpold, Minderheiten in Unionsrecht, Archiv des Völkerrechts, 2001, p. 432 ss.; G. von Toggenburg, A Rough Orientation through a Delicate Relationship: The European Union’s Endeavours fot its Minorities, in S. Trifunovska (cur.), European Minorities and Languages, The Hague, 2001, p. 205 ss.; Idem (ed.), Minority Protection and the Enlarged European Union: The Way Forward, Budapest, 2004; N. Nic Shuibhne, EC Law and Minority Language Policy. Culture, Citizenship and Fundamental Rights, The Hague-London-New York, 2002; R. Toniatti, Il multiculturalismo nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, relazione tenuta al convegno su Società multiculturale e Stato democratico, Paestum, 18-19 maggio 2007.

[31] Cfr., fra gli altri, C. Piciocchi, L’identità culturale e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, in R. Toniatti (a cura di), Diritto, diritti, giurisdizione. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Padova, p. 119 ss.

[32] Ci riferiamo anche alla relazione di R. Toniatti, Il multiculturalismo nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, cit. In diversa prospettiva, cfr. E. Pföstl, Introduzione. Il ritorno al multiculturalismo, cit., p. 37 secondo cui “gli sviluppi recenti della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di diritti fondamentali dimostrano che l’interpretazione teleologica dei principi costituzionali comunitari e degli stati membri può consentire un soddisfacente livello di tutela dei diritti anche nell’ambito della tutela delle minoranze”.

[33] In generale, fra gli altri, si veda P. Nikolic, I sistemi costituzionali dei nuovi Stati dell’ex-Jugoslavia, Torino, 2002, p. 131 ss.

[34] In generale, cfr. P. Roter, Language Issues in the context of Slovenian Smallness, in F. Daftary, F. Grin, Nation-Builiding, Ethnicity and Language Politics in Transition Countries, European Center for Minority Issues, Open Society Institute, Budapest, 2003, p. 211 ss., anche reperibile al sito: http://lgi.osi.hu/publications/2003/248/ECMI-Vol-II.pdf.

[35] Si veda in particolare l’art. 64 sui diritti particolari della comunità autoctona italiana e di quella magiara in Slovenia che inizia: « Alle comunità nazionali autoctone italiana e ungherese e ai loro appartenenti è assicurato il diritto di usare liberamente i propri simboli nazionali e, ai fini della conservazione della propria identità nazionale, di istituire organizzazioni e sviluppare attività economiche, culturali nonché della ricerca scientifica e attività nel settore della pubblica informazione e dell’editoria».

[36] Il riferimento va, fra gli altri, a Z. Antoni?, A. Zorman, Linguistic and Sociocultural Transition in Slovenia: The Italian Ethnic Group, Past and Present, in Transition Studies Review, 2004, p. 171 ss. In termini adesivi, M. De Ciuceis, L’uso della lingua minoritaria nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell’amministrazione della giustizia, in V. Piergigli (a cura di), L’autoctonia divisa. La tutela giuridica della minoranza italiana in Istria, Fiume e Dalmazia, cit., p. 352 ss.

[37] Lo Statuto del comune di Capodistria (art. 7) definisce ambiti territoriali nazionalmente misti le località di «Ankaran-Ancarano, Barizoni-Barisoni, Bertoki-Bertocchi, Bošamarin-Bossamarino, Cerej-Cerej, Hrvatini.-Crevatini, Kampel-Campel, Kolomban-Colombano, Koper-Capodistria, Prade, Premacan-Premanzano, part of the town of Spodnje Škofije (Valmarin), Šalara-Sallara and Škocjan-San Canziano». Lo Statuto di Isola individua negli insediamenti di «Dorava pri Isoli, Jagodje, Livada, Polje pri Izoli» le aree etnicamente miste (art. 4). Lo Statuto di Pirano (art. 3) individua come territori nazionalmente misti gli abitati di «Pirano. Portorose. Lucia. Strugnano. Sezza, Sicciole, Parezzago e Dragogna».

[38] I testi degli Statuti e parte delle normativa citata sono reperibili nel sito dell’Accademia Europea di Bolzano: http://www.eurac.edu/Org/Minorities/IMR/index.htm o nel sito http://xoomer.alice.it/histria/links.htm. Si veda anche la ricerca condotta nella tesi di laurea di A. Lucianer, La toponomastica italiana in Croazia e Slovenia, Trento, 2006.

[39] Nel Comune di Capodistria, lo stesso decreto conferma come territori nazionalmente misti «tutti i circondari territoriali (CT) compresi nelle circoscrizioni degli abitati di Ankaran-Ancarano, Barizoni-Barisoni, Bertoki-Bertocchi, Bošamarin-Bossamarino, Cerej-Cerei, Hrvatini-Crevatini, Kampel-Campel, Kolomban-Colombano, Prade, Preman?an-Premanzano, Šalara-Sallara, Škocjan-San Canziano nonché il circondario territoriale n. 243 (parte dell’abitato di Spodnje Škofije-area di Valmarin)» .

[40] Sulle potenzialità della rappresentanza politica in termini di tutela minoritaria, ci si permetta il riferimento a C. Casonato, Minoranze etniche e rappresentanza politica: i modelli statunitense e canadese, Trento, 1998, p. 68 ss.

[41] Il consiglio di tali Comunità è costituito da componenti eletti sulla base della legge sulle elezioni amministrative. Il diritto di suffragio attivo e passivo spetta solo ai componenti della stessa Comunità ed è esercitato sulla base di elenchi elettorali gestiti dalla stessa Comunità e controllati da organi che fanno capo al Ministero degli Interni. Il riferimento va a C. Casonato, La rappresentanza politica della comunità italiana in Slovenia e Croazia, in V. Piergigli (a cura di), L’Autoctonia divisa. La tutela giuridica della minoranza italiana in Istria, Fiume e Dalmazia, cit., p. 332 ss.

[42] Un parere non vincolante, invece, dev’essere ottenuto sui simboli del Comune: C. Casonato, La rappresentanza politica della comunità italiana in Slovenia e Croazia, cit., p. 333.

[43] Si vedano i risultati del censimento del 2002 e le indicazioni offerte da M. De Ciuceis, L’uso della lingua minoritaria nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell’amministrazione della giustizia, cit., p. 353. Nel primo rapporto dell’Advisory Committe della Convezione-quadro del Consiglio d’Europa del giugno 2004, si riportava la rilevazione di 3.762 persone di madrelingua italiana e di 2.258 appartenenti alla minoranza italiana. In una decina d’anni (a partire dal 1991), peraltro, la popolazione che si dichiarava di appartenenza all’etnia italiana era calata di 700 unità: cfr. i Rapid Reports, No. 93/2003, Statistical Office of the Republic of Slovenia riportati nel secondo report della Slovenia al Consiglio d’Europa, del 6 luglio 2004 (reperibile nel sito del Consiglio d’Europa: http://www.coe.int.)

[44] Si vedano P. Blair, The Protection of Regional and Minority Languages in Europe, in Euroregions, V, 1993, p. 38; M. Klemen?i?, J. Zupan?i?, The effects of the dissolution of Yugoslavia on the minority rights of Hungarian and Italian minorities in the post-Yugoslav states, in Nationalities Papers, IV, 2004, p. 853 ss.

[45] Risoluzione reperibile nel sito del Consiglio d’Europa: http://www.coe.int.