Il periodo veneziano

Il periodo veneziano (1420-1797)

Scritto da Lucio Toth
Dopo quasi mezzo secolo di soggezione ungherese (1358 – 1409) Zara capitale della Dalmazia entra definitivamente nello Stato veneziano, per un accordo intervenuto a Venezia il 9 luglio 1409 tra Ladislao d’Angiò, re d’Ungheria e di Napoli, e la Serenissima, con il quale il re cedeva ogni diritto sul vasto contado di Zara (da Pago ad Aurana) e sull’intera Dalmazia per 100.000 ducati. Seguì la rivolta di Zara contro napoletani e ungheresi per questo oltraggio alla dignità cittadina e la immediata “dedizione” del comune, con solenne voto unanime del Maggior Consiglio, alla Repubblica di S. Marco. Non era la prima dedizione di Zara alla sua maggiore rivale adriatica; ma fu l’ultima perché da allora la capitale della Dalmazia divenne una delle città “fedelissime” della Repubblica. Immediata fu infatti da parte di Venezia la concessione a tutti gli zaratini della piena cittadinanza veneziana.
Fino al 1797 la più grande festa cittadina sarà la celebrazione della “Santa Intrada” dei messi dogali, il 31 luglio di ogni anno, con le invocazioni popolari a San Marco (“Al nome del santissimo et glorioso eterno Dio et de la sua Madre Vergine Maria…et del bon stado dela nostra Illustrissima Ducal Signoria de Venexia che Dio la salva et mantenga usque ad finem mundi. Amen. Et viva san Marcho… etc”).
In quel torno di anni avvengono le dedizioni a Venezia degli altri comuni dalmati, ad eccezione di Ragusa. E così da Arbe a Cattaro si estenderà il dominio della Serenissima. Furono rispettate le autonomie cittadine, con l’intero ordinamento comunale, così come elaborato nei secoli precedenti. Ma l’indipendenza politica era ormai perduta. Un conte nominato da Venezia ricopriva la massima carica cittadina.
Il processo si compie nel 1420 con l’accettazione da parte del Maggior Consiglio della dedizione di Cattaro, che l’aveva rinnovata per ben sei volte.
Da questo momento la Dalmazia – tranne Ragusa, come si è detto – seguirà le sorti dello Stato veneziano in pace e in guerra, fornendo alla Repubblica i suoi dirigenti (molte famiglie dalmate patrizie verranno iscritte nel Libro d’oro e si trasferiranno addirittura a Venezia), il suo naviglio, militare e mercantile, le milizie più valorose, per terra e per mare.
Discordi sono nella storiografia croata e in quella iugoslava i giudizi sul lungo periodo del dominio veneto. C’è chi ha ritenuto, specie negli anni del regime comunista, che si sia trattato di una amministrazione di rapina, che ha privato la regione delle sue risorse a esclusivo vantaggio della capitale veneta e della sua classe dirigente, a cominciare dalla distruzione dei boschi per la costruzione delle navi e per le palafitte di Rialto e di Dorsoduro a finire con le leve militari. E il patriziato dalmato, i suoi mercanti e in genere gli italiani delle città, si sarebbero fatti complici di questa politica di spoliazione.
E’ stata questa del resto una tesi assai diffusa nella storiografia europea anche a proposito di altri cosiddetti “domini coloniali”: quelli genovese e francese in Corsica; quelli pisano, genovese, aragonese e sabaudo in Sardegna; quello spagnolo in Sicilia e nel Mezzogiorno italiano; lo stesso dominio veneziano in Grecia e in Albania. Le accuse ricorrenti sono più o meno sempre le stesse. Si inseriscono in visioni ideologiche, tra nazionaliste e classiste, che si rivelano sempre più datate.
Ma ci sono anche riletture della storia dalmata da parte croata e iugoslava che riconoscono i benefici della lunga amministrazione veneziana. Primo fra tutti l’aver difeso la costa orientale adriatica dall’invasione ottomana ed aver fatto quindi della Dalmazia, dell’Albania veneta e delle isole greche tenute dalla Serenissima (ultime le Sette Isole Ionie) l’antemurale della cultura europea occidentale. E questo per molti secoli, prima che sorgesse la potenza militare dell’impero austriaco degli Asburgo.
Ma un merito tutto locale viene riconosciuto nell’aver conservato sulla costa dalmata i modi e le forme della civiltà europea, in periodi in cui tutto l’entroterra balcanico e danubiano, Croazia compresa, era stato sottoposto ad una cultura, come quella ottomana, indubbiamente asiatica ed estranea alla tradizione occidentale. Questa funzione è tornata di beneficio a tutta l’area balcanica, non avendo consentito che si disfacessero i legami culturali e religiosi di quelle nazioni con il mondo occidentale cristiano, alterandone irrimediabilmente la fisionomia.
Questo riconoscimento può valere per la Croazia, come per la Serbia e il Montenegro e per la stessa Grecia, che trovò alla fine del Settecento e ai primi dell’Ottocento l’impulso culturale del suo ritorno all’indipendenza e all’europeità proprio nelle classi dirigenti delle Isole Ionie, profondamente legate a Venezia e alla cultura occidentale.
Per gli italiani della Dalmazia è naturale che il giudizio sul lungo periodo veneziano – iniziato nel 1000 come area di influenza e consolidatosi politicamente nei primi anni del Quattrocento, con quattro secoli ininterrotti di vita comune, nel momento storico decisivo in cui si modellava l’Europa moderna – non può essere che positivo. Anzi va riconosciuto che per i dalmati italiani Venezia rimase un mito indistruttibile. Ancora negli anni Quaranta del Novecento ai bambini di Zara veniva insegnata l’antica barcarola che diceva: “Oh Venezia, sii benedetta. La regina, la regina sei del mar…”
L’unica cosa che i dalmati italiani non sono disposti a riconoscere alla Serenissima è di aver portato l’italianità in Dalmazia. Perché – come si è visto – essa aveva origini ben più lontane, nella sua ininterrotta tradizione latina.
Ma l’attaccamento alla Repubblica di San Marco riguardava non solo gli italiani della Dalmazia, ma anche croati, morlacchi e albanesi. Questo attaccamento si manifestò costantemente in tutte le grandi prove che Venezia dovette affrontare tra il XV e il XVIII secolo.
Il 29 maggio del 1453 Costantinopoli, dopo due mesi di assedio, veniva conquistata da Maometto II. Partecipavano alla difesa della città milizie e navi veneziane e genovesi, queste ultime agli ordini di Giovanni Giustiniani, che restava ferito a morte mentre combatteva a fianco dell’imperatore Costantino XI Paleologo. Poche ore dopo anche questi rimaneva ucciso sugli spalti della sua capitale. L’Impero Romano di Oriente cessava di esistere dopo oltre un millennio di vita e Bisanzio diventava la sede dell’Impero ottomano.
La notizia fece enorme impressione in tutta l’Europa. Mosca si considerò erede della porpora imperiale e dell’ortodossia della Chiesa orientale e si attribuì il titolo di Terza Roma. In pochi anni quasi tutta la penisola balcanica cadeva in mani turche. Il regno dei Serbi, che Stefano Dusan aveva portato al massimo splendore, aveva cessato di esistere nel 1383 dopo la sfortunata battaglia di Kossovopolje. Anche il regno dei Bulgari era stato spazzato via nel 1393. Atene veniva occupata nel 1456 e il Partenone si trasformava in moschea; la Morea nel 1460. Tra il 1463 e il 1482 era la volta della Bosnia, dell’Albania e dell’Erzegovina.
Le ostilità in Dalmazia ebbero inizio nel 1468 con le prime incursioni e devastazioni nei contadi di Spalato, Sebenico e Zara. Seguirono oltre due secoli di battaglie e scorrerie.
Zara subì due lunghi e duri assedi: nel 1499 e nel 1571. Entrambi furono respinti con la vittoria delle armi cristiane. A quest’ultimo è legato l’episodio leggendario del giovinetto Cattich, della famiglia nobile dei capitani del Borgo, che con una fionda ferì il capo di una masnada turca che si era aperto una breccia nelle mura, consentendo così di respingere l’assalto. Anche Curzola fu assediata nello stesso anno 1571. Più assedi subì Sebenico.
Decisive, per alleggerire la pressione sulle frontiere dalmate, furono le giornate di Lepanto del 6-7 ottobre 1571. Ad esse partecipavano 214 navi da battaglia delle marine europee, agli ordini di Giovanni d’Austria. Sei galeoni e 105 galere erano veneziane, guidate da Sebastiano Venier. Sette di queste erano direttamente armate dalle città dalmate, con i loro equipaggi. Le altre navi erano spagnole, genovesi, pontificie, medicee, sabaude, maltesi. Gli equipaggi e gli armati sulle tolde erano prevalentemente italiani, sia tra quelli della flotta veneta, che delle altre flotte, essendo i reparti di alabardieri e di fanti di marina imbarcati sulle navi spagnole arruolati in gran parte nell’Italia meridionale, in Sicilia e in Sardegna. Sulle galee venete combattevano ovviamente, ufficiali e comandanti compresi, gli altri sudditi della Serenissima: greci, slavi e albanesi.

Lesina. Mandracchio con l'arsenale veneziano che ospitò la galea vittoriosa a Lepanto
Lesina. Mandracchio con l'arsenale veneziano che ospitò la galea vittoriosa a Lepanto

La vittoria di Lepanto fu salutata in tutta Europa da grandi festeggiamenti ed è tuttora ricordata da tutti i popoli che vi presero parte (Miguel de Cervantes ne andava orgoglioso). Essa servì infatti ad arrestare l’avanzata turca nel Mediterraneo, che era diventata la principale minaccia dopo le inaudite stragi di Otranto e Gallipoli, dove la popolazione che si era rifiutata di aderire all’Islam era stata passata a fil di spada, come allora si diceva.
Ma anche nel secolo successivo e fino all’inizio del 1700 la frontiera dalmata fu teatro di scontri decisivi. La repubblica di Venezia fu impegnata, con le sue finanze e le sue milizie in due guerre estenuanti: la guerra di Candia, dal 1645 al 1670, e la guerra di Morea, dal 1683 al 1721. La prima aveva per obiettivo la difesa dell’isola di Creta, veneziana dal 1204 e dove era fiorita una brillante scuola di pittura veneto-bizantina, dalla quale proveniva anche Domenico Theotocopoulos (El Greco della tradizione spagnola). Nel lunghissimo assedio di Candia presero parte numerosi contingenti dalmati e ancora oggi uno dei bastioni della città porta il nome del conte Vitturi di Spalato, che lo difese valorosamente per anni. La seconda si combatté per la conquista e la successiva difesa del Peloponneso, che Francesco Morosini aveva strappato ai turchi. Entrambe ebbero anche in Dalmazia un aspro teatro di operazioni, con alterne vicende.
La guerra di Morea si svolgeva nell’ambito dell’alleanza con l’Austria e la Polonia, per difendere dalle continue offensive ottomane l’Europa centrale. Alle grandi vittorie di Sobievski a Vienna (1683) e di Eugenio di Savoia nelle pianure danubiane (1716-1717) corrispondevano le battaglie delle armate venete in Grecia, in Albania, in Dalmazia. Se alla fine la Morea andò perduta, nel retroterra dalmato il dominio veneziano raggiunse la massima estensione.
Con la pace di Karlovitz del 1699, fondata sul principio dell’Uti possidetis (cioè fin dove erano arrivate le picche e gli stendardi), il confine veneto arrivò a comprendere il vasto distretto di Tenin (Knin), Verlicca, Signo, Vergoraz e più a sud tutte le Bocche di Cattaro. Fu chiamato “Linea Grimani”, dal nome del rappresentante veneziano, il nobile Giovanni Grimani, e ai territori conquistati fu dato il nome di “Nuovo Acquisto”. Con la successiva pace di Passarovitz, conclusa nel 1718 e firmata nel 1721, venivano aggiunti altri territori, tra i quali il distretto di Imoschi al confine erzegovese. Il “Nuovissimo Acquisto” si chiudeva con la “Linea Mocenigo”, da Alvise Mocenigo che l’aveva negoziata. Restò il confine della Repubblica sino alla sua fine e divenne poi la linea di frontiera degli Stati eredi della Serenissima, l’impero napoleonico e quello austriaco, verso la Turchia europea.

Dalmazia nel 1792 (Biblioteca Istituto Geografico Militare di Firenze)
Dalmazia nel 1792 (Biblioteca Istituto Geografico Militare di Firenze)

Ma come erano formate le milizie venete, che combattevano queste battaglie? Naturalmente gli ordinamenti militari subirono varie trasformazioni a seconda delle armi usate e dei mutamenti tattici resisi necessari dai diversi tipi di combattimento (assedi, battaglie campali, scaramucce, incursioni).
Si consolidò tuttavia sul lungo periodo una organizzazione molto articolata: in primo luogo vanno considerati i reparti formati da sudditi veneti delle province del Dominio de Terra (lombardi, veneti, friulani, istriani), generalmente destinati ai corpi specializzati: artiglieri, guastatori, pontieri, ecc. ma anche ad alcuni reggimenti di fanteria di linea. Questi reparti venivano chiamati “reggimenti veneti”. La maggior parte dei reggimenti di fanteria pesante, e quindi picchieri e alabardieri, ma anche archibugieri e moschettieri, era costituita dai cosiddetti “reggimenti italiani”, inquadrati da nobili di varie parti d’Italia e d’Europa e formati da leve arruolate nel territorio degli altri Stati italiani, a seguito di accordi (non gratuiti) con i rispettivi sovrani. Numerosi erano i contingenti di calabresi e abruzzesi, come i battaglioni che si distinsero nell’assedio di Castelnuovo di Cattaro. Venivano poi i “reggimenti oltramarini”, formati da sudditi veneti dei territori teatro di guerra. Erano reparti di fanteria e cavalleria leggera. Chiamati Stradiotti (dalla voce neo-greca Stratiotes=soldati) erano particolarmente adatti ad effettuare e fronteggiare incursioni, a proteggere i fianchi delle colonne e controllare vasti territori prevenendo le sorprese. Erano quindi formati da greci, albanesi, croati, serbi. Per inquadrare questi reparti venne istituita a Zara nei primi anni del 1700 un’apposita Accademia militare per la formazione degli ufficiali ultramarini.
Infine c’erano i “Serdari” o “Cernidari”, dal termine veneto “cernida”. Erano i difensori dei villaggi interni di frontiera, ognuno dei quali doveva fornire una cernida. Montanari e contadini-soldati combattevano secondo i loro metodi di guerriglia appresi nel corso delle generazioni. Erano i più temuti dal nemico perché operavano sul loro terreno, a difesa delle case, dei raccolti, delle loro famiglie, delle loro chiese. Non sempre il loro comportamento sul campo rispondeva ai canoni del diritto di guerra, che già allora i giuristi europei raccomandavano. Episodi di ferocia si susseguivano dall’una e dall’altra parte, con rappresaglie, incendi di villaggi, ecc. Il loro odio verso il turco derivava dal fatto che per lo più si trattava di popolazioni espulse dalle terre d’origine a seguito di qualche offensiva ottomana, con conseguenti pulizie etniche. I Serdari erano in genere morlacchi e montenegrini. Controversa è l’origine etnica dei primi. L’opinione più accreditata è che si tratti dei discendenti di illiro-romani (mauro-valacchi o valacchi neri, forse dal colorito abbronzato della pelle esposta alle intemperie) slavizzati nel corso del Medio Evo e scesi verso la costa per sfuggire alle invasioni turche. Venezia li organizzò secondo questo modello di militarizzazione della frontiera, poi ripreso dagli Imperiali, cioè dalle polietniche armate austriache del Seicento e del Settecento, che diede origine alle attuali Krajine, zone-cuscinetto della Slavonia, della Lika, della Dalmazia, definite anche con termine tedesco “militargrenzen”.
Lungo gli altipiani delle Dinariche Venezia e l’Austria si contesero a lungo alcune zone, strappandole di volta in volta ai turchi e difendendole dall’alleato-nemico. In quegli stessi secoli (XVI-XIII) infatti non si deve dimenticare che si determinò un durissimo confronto, con frequenti ostilità aperte, tra La Repubblica e il nascente Impero asburgico, cui l’Italia fornì soldati e condottieri di grande vaglia, come Ottavio Piccolomini, Raimondo Montecuccoli, Filiberto ed Eugenio di Savoia. Alleate contro l’infedele nei Balcani, Austria e Venezia non si risparmiarono colpi sui confini occidentali, dal Trentino all’Isonzo, all’Istria interna. I due momenti di maggior tensione furono nei primi decenni del Seicento la cosiddetta guerra di Gradisca, per il possesso della città fortificata, e le incursioni dei pirati Uscocchi, corsari di ogni stirpe, ma soprattutto slavi, che dai covi del Canale della Morlacca, incoraggiati e aiutati sottobanco dall’Austria, insidiavano i legni veneziani in navigazione nel Quarnaro e nell’Alto Adriatico e giunsero a saccheggiare l’istriana Albona (1599) e ad attaccare la stessa Pola (1607). Fu in quegli anni che si verificò una poco conosciuta alleanza militare tra la Serenissima e i Duchi di Savoia, che da Nizza inviarono, intorno al 1600, i loro vascelli da corsa nel Quarnaro per spalleggiare le galee venete. La ragione di questo connubio era il comune sforzo dei due Stati italiani più indipendenti nel fronteggiare l’egemonia austro-spagnola sulla penisola italiana.
Ma il fenomeno più sorprendente della storia dalmata di questi secoli è la continuità dello sviluppo civile delle città costiere malgrado la frequenza delle guerre che arrivavano – come si è visto – fin sotto le mura cittadine. Devastazioni, carestie ed epidemie non mancarono, come in tutte le regioni europee interessate da eventi bellici, e determinarono emigrazioni e ripopolamenti di territori che si dovevano ricuperare alla vita civile. Anzi è accertato storicamente che il periodo veneziano segnò un incremento delle popolazioni slave della Dalmazia, soprattutto di serbi ortodossi, nonché l’arrivo di colonie albanesi (cristiani che avevano abbandonato i territori occupati dai turchi). Del resto sono note le migrazioni albanesi, slave e greche verso l’Italia meridionale e insulare, dove ancora oggi sopravvivono isole linguistiche risalenti a quell’epoca (XVI-XVII sec.). Sia i territori della Serenissima che il Regno di Napoli sotto i viceré spagnoli erano luogo d’asilo per profughi e fuggiaschi.
L’evoluzione giuridica e culturale già iniziata all’epoca dei liberi comuni proseguì ininterrottamente lungo tutto il Quattrocento, il Seicento e il Settecento, segno indiscutibile degli effetti sostanzialmente positivi del governo veneto. Se è indubitabile che l’architettura religiosa di maggior pregio della Dalmazia, tale da rendere questa regione tra le prime d’Europa, è quella romanica dell’epoca preveneta (1100-1200), con le basiliche di Arbe e di Zara, di Spalato e di Traù, di Curzola e di Cattaro, non per questo i centri urbani segnarono un degrado urbanistico o un regresso negli standard di vita.
E’ evidente che i comuni dalmati disponevano nei secoli XII e XIII di risorse adeguate per iniziare e portare a termine opere d’arte di quell’impegno, mentre tali risorse nelle età successive vennero meno. Ma è un fenomeno comune a tutta l’Europa. Con il formarsi dei grandi Stati nazionali occidentali e degli Stati regionali italiani mentre le nuove o antiche capitali proseguirono nel loro sviluppo edilizio e architettonico, trasformandosi continuamente (Parigi, Madrid, Firenze, Genova, Torino, Napoli) le città minori conservarono – per il beneficio dei posteri – i loro illustri monumenti religiosi dell’epoca romanica e gotica (Salamanca e Burgos, Chartres e Tour, Siena e Modena, Verona e Treviso, Bari e Salerno, ecc.). Era cambiato il clima civile ed economico d’Europa: la vita delle corti e delle capitali tendeva ad assorbire le risorse disponibili. Ma non per questo si arrestò il progresso artistico, culturale, scientifico delle città minori, che vivendo degli interscambi culturali ed economici dei nuovi Stati, ne ricevettero anzi beneficio, entrando in contatto con i maggiori centri di produzione culturale dell’epoca. E Venezia era certamente uno di questi!
Di qui la straordinaria fioritura di ingegni di cui la Dalmazia dà prova e il contemporaneo arricchimento delle città di edifici civili e religiosi di grande livello artistico. Basta ricordare i numerosi palazzi patrizi in stile tardo-gotico di Traù e di Spalato, di Sebenico, di Curzola, di Lesina, di Zara che diedero il carattere saliente a calli e campielli, facendo di quei centri storici dei gioielli urbanistici. E si pensi all’opera di impreziosimento delle chiese esistenti con nuove cappelle come quella del Beato Orsini nel duomo di Traù, capolavoro di Nicolò Fiorentino, o il coro intarsiato di S. Francesco a Zara, di Giovanni da Sansepolcro, o le numerose pale d’altare e i teleri di Vittore Carpaccio nella cattedrale di Zara, le tavole di Carlo Crivelli, che tenne bottega a Zara per lunghi anni, e le opere di ugual livello prodotte da artisti nativi del luogo, che alternavano i soggiorni nelle Marche o a Venezia con la permanenza nelle città natali.

Zara. Piazza dei Signori. La Loggia con l'orologio, attribuita al Sanmicheli
Zara. Piazza dei Signori. La Loggia con l'orologio, attribuita al Sanmicheli
Lesina. Cattedrale di Santo Stefano
Lesina. Cattedrale di Santo Stefano
Lesina. La Loggia
Lesina. La Loggia
Zara. Particolare di Palazzo Gherardini
Zara. Particolare di Palazzo Gherardini

Tutto il Quattrocento e il Cinquecento sono contrassegnati da una vita artistica e letteraria non inferiore a quella delle più avanzate regioni d’Europa.
Tra i grandi architetti bastano alcuni nomi per indicare la vivacità creativa della regione. Giorgio Orsini, nato a Zara, ma chiamato Giorgio da Sebenico o Giorgio il Dalmatico, per la sua opera maggiore, il duomo di Sebenico, ove lavorò con Dalle Masegne, che segna il passaggio dal gotico al Rinascimento, raggiungendo un’ammirabile unità stilistica e anticipando il nuovo modello veneziano delle chiese a vela, riprese dal Condussi e dall’Alessi. Sulla stessa linea troviamo la chiesa rinascimentale di S. Maria a Zara e altri edifici religiosi dello stesso stile a Ragusa.
L’opera di Giorgio Orsini si svolse anche nelle Marche, tra Ancona e Fermo, ove pare avesse aperto una sua bottega con numerosi allievi. Sue sono ad Ancona la facciata delle chiesa di S. Francesco e la Loggia dei Mercanti e numerosi portali e chiesette nel Fermano. Dell’Orsini fu anche il progetto urbanistico di un’intera cittadina, Pago, capoluogo dell’omonima isola, ove trovarono applicazione le più severe e aggraziate regole dell’Alberti in un contesto paesano e marinaro di grande fascino.
Un altro insigne “tagliapietre” fu Giovanni Dalmata, come egli stesso si faceva chiamare, che nei documenti notarili viene indicato come Giovanni Duknovich da Traù. Scultore e architetto, lavorò a Venezia a Palazzo Ducale; a Roma a Palazzo Venezia e in numerose chiese, tra le quali la basilica di S. Pietro, S. Maria sopra Minerva; a Vicovaro, ove eresse – con Domenico da Capodistria – il tempietto ottagonale, fra i più significativi e originali monumenti rinascimentali del Lazio, e infine in Ungheria, ove fu chiamato alla corte di Mattia Corvino, ove operavano numerosi artisti e umanisti italiani.
Del contado di Zara era pure lo scultore Francesco Laurana (circa 1425-1502), attivo a Napoli, ove collaborò in misura determinante all’arco trionfale di Castel Nuovo, commissionatogli dal re Alfonso d’Aragona, a Palermo, a Messina, a Noto e in altre cittadine della Sicilia orientale, ove introdusse le forme più raffinate del Rinascimento toscano. Famosi sono i suoi busti, come quello di Eleonora da Aragona, e le sue lunette sparse su tante chiese e cappelle siciliane. Si recò poi in Provenza, a Marsiglia e ad Avignone, ove la sua arte si caricò di un realismo aggressivo e inquietante, come nella crocefissione della chiesa di S. Stefano ad Avignone.
Anche Francesco Laurana (1420-1479) proveniva probabilmente dalla stessa località di Aurana, nel comune zaratino, ma non è sicuro fosse fratello del primo. Singolare figura di architetto, il cui itinerario artistico rimane tuttora misterioso. Oggi si immagina che egli abbia collaborato con l’Alberti alla costruzione del Tempio Malatestiano di Rimini. Sta di fatto che il duca Federico d’Urbino lo chiamò per progettare e dirigere i lavori del suo palazzo urbinate, una delle opere fondamentali del Rinascimento italiano. Al Laurana si attribuiscono una delle facciate esterne sulla piazza antistante, il cortile e l’originalissimo prospetto sulla vallata, con le due torricelle che chiudono la loggetta, opera ardita di ingegneria anche sul piano tecnico.
Come si vede non stiamo parlando di figure marginali, ma di protagonisti dell’arte europea nell’epoca più feconda del nostro Rinascimento. A volte gli studiosi si sorprendono di questa presenza così penetrante di artisti dalmati nell’arte italiana. E’ perché non pensano o non conoscono l’ambiente intrinsecamente italiano delle città della Dalmazia. Non si trova in questa regione espressione alcuna, letteraria o artistica, che non rientri nel grembo della cultura italiana dell’epoca.
Le stesse osservazioni infatti si possono ripetere per gli umanisti dalmati. Da Gianfrancesco Fortunio, autore della prima grammatica della lingua italiana pubblicata nel 1516, anteriore di nove anni a quella di Pietro Bembo, ai tre studiosi di Traù Pietro, Coriolano e Alvise Cippico, che fecero del loro palazzotto avito un centro di studi epigrafici e di raccolta di codici antichi greci e latini tra i più forniti d’Europa. E’ da un Codex Traguriensis che proviene il frammento più noto della Cena di Trimalcione di Petronio. Un altro esponente di rilievo dell’Umanesimo italiano è Francesco Patrizi, nato nel 1529 da nobile famiglia dell’isola di Cherso e vissuto a lungo a Padova e a Roma, ove partecipò ai circoli letterari più attivi e ove morì nel 1597, essendo sepolto accanto al Tasso nella chiesa di S. Onofrio. Ad essi devono aggiungersi gli zaratini Giorgio e Simone Begna, gli spalatini Marco Marulo e Tomaso Negri; Giorgio Sisgoreo e Ambrogio Micheteo di Sebenico; Giacomello Vitturi da Traù; i cattarini Marino Polizza, Trifone Bisanti e Lodovico da Ponte.

Traù: la Loggia - Sullo sfondo Palazzo Cippico (vecchio)
Traù: la Loggia - Sullo sfondo Palazzo Cippico (vecchio)

Tra il Cinquecento e i primi del Seicento altri umanisti assai conosciuti in Europa furono Fausto Veranzio da Sebenico, autore di opere di ingegneria, e Marcantonio de Dominis da Arbe, che al termine di una vita di studi e di avventure, si ritrovò accusato a Roma di eresia dal Santo Uffizio e il suo corpo fu arso sul rogo in Campo dei Fiori come Giordano Bruno. Solo che il de Dominis era già morto per conto suo qualche giorno prima.
Il più grande storico dalmata fu Giovanni Lucio, nato a Traù nel 1604. La sua maggiore opera, redatta in latino, alla quale dedicò gran parte della sua vita, fu la Storia del Regno di Dalmazia e Croazia, considerata tutt’oggi dagli storiografi come la fonte più preziosa di ricerche sulla Dalmazia in particolare, ma anche sulle complesse vicende del regno croato e di quello ungherese e sui loro rapporti con Bisanzio, l’Impero franco e la Repubblica di Venezia. Il suo pensiero di storico è stato oggetto di contrastanti valutazioni nella storiografia croata, a volte osannato come campione di patriottismo croato, a volte vilipeso come manipolatore di documenti “ad usum delfini”, che sarebbe poi stato quello di attribuire eccessivo rilievo alla storia dei comuni della sua terra. Come esponente della nobiltà autoctona fedelissima a Venezia, il Lucio indubbiamente aveva nella sua ricerca l’intento principale di ribadire i diritti storici della Serenissima sulla regione, in contrapposizione alle pretese della Casa d’Asburgo. Ma al di là dei contenuti – che non possono essere forzati secondo le intenzioni ideologiche dei suoi commentatori, dovendo essere riferiti alle obiettive circostanze politiche di quel momento – il merito maggiore riconosciuto oggi al Lucio è di avere adottato prima del Muratori un metodo di ricerca contrassegnato da “ampiezza e sicurezza di informazione e rigore critico” come si espresse Giuseppe Praga nella relativa voce biografica dell’Enciclopedia Italiana.
Un capitolo a parte merita però la città di Ragusa, l’orgogliosa repubblica che si piegò ad ogni compromesso pur di custodire la sua libertà. “NON BENE PRO TOTO LIBERTAS VENDITUR AURO” era il motto scolpito sui palazzi pubblici, di potente ed elegante stile veneziano del Quattrocento (prova che la venezianità del costume e dei gusti andava in Dalmazia al di là dei confini politici della Serenissima). Patria di umanisti e di scienziati Ragusa svolse una preziosa funzione di ponte tra la cultura italiana e le culture slave meridionali, serba e croata. Se la lingua ufficiale della Repubblica di S. Biagio e quella usata negli affari e nel linguaggio corrente della classe colta e di parte della popolazione urbana era l’italiano (dopo l’avvenuto assorbimento del dalmatico), molti letterati ragusei scelsero per primi di esprimersi o di tradurre in lingua serbo-croata opere di poesia, di prosa e di teatro, regalandoci i testi più antichi e gustosi di satira popolare in una lingua slava. I loro modelli erano italiani (sonetti, madrigali, commedie cinquecentesche), ma come scrivevano quotidianamente in italiano o in latino, altrettanto piacevolmente scrivevano nella lingua compresa da buona parte degli abitanti del contado e dai forestieri slavi che vi giungevano dall’interno per i loro affari.
Se Elio Lampridio Cerva, incoronato in Campidoglio nel certamen più prestigioso dell’Italia rinascimentale, menava vanto con un certo snobismo classista di non usare altro che il latino, dispregiando i linguaggi “barbarici”, altri suoi contemporanei e concittadini, come il Gundula, non ne seguirono l’esempio regalando alla posterità le loro sapide commedie di stampo plautiano, ricche di personaggi stravaganti che parlavano un vernacolo imbastardito, che evidentemente divertiva la platea di nobili e popolani che correva ad assistervi.
Furono una schiera gli umanisti ragusei. Nicolò Vito di Gozze, Carlo Pozza, Giacomo Bona, Benedetto Cotrugli non raggiunsero minor fama negli studi di cui si dilettarono, non solo di filosofia, retorica e poesia, ma anche di problemi concreti dell’epoca loro, nel commercio, nell’idraulica, nella navigazione.
Nel Seicento fiorì a Ragusa, intorno al Collegio dei Gesuiti, una vera scuola dedicata ai problemi delle nuove scienze che si andavano sviluppando in Europa: chimica, fisica, medicina. Da questa scuola uscirono i ragusei Ignazio Giorgi e Giorgio Baglivi, uno dei padri della medicina moderna.
E da quel collegio di gesuiti partirono le missioni nei territori balcanici invasi dai turchi per ravvivare le tormentate comunità cattoliche dell’Albania, dell’Ungheria, della Transilvania. I loro drammatici resoconti, redatti in italiano dell’epoca, sono una testimonianza affascinante della situazione dell’Europa sotto dominio ottomano, con i suoi visir, le potentissime comunità di greci “fanarioti” (costantinopolitani), le mederse islamiche, le razzie dei giannizzeri, i voivoda cristiani, sia i “collaborazionisti” della Sublime Porta, sia gli spietati ribelli che mettevano a ferro e a fuoco le fortezze degli infedeli. Anche dal punto di vista missionario quindi, come da quello letterario, la Dalmazia assolse pienamente il suo ruolo di testa di ponte dell’Occidente latino sulla penisola balcanica.
L’indipendenza di Ragusa spiega anche la ricchezza di notevoli edifici barocchi, civili e religiosi, costruiti fra il Seicento e il Settecento lungo le sue piazze e il suo Stradun, il corso cittadino che attraversa il centro urbano da Porta Pile al Porto Casson.
Questa vivacità culturale proseguì anche nel Settecento, malgrado la grave crisi economica e le carestie che colpirono la regione a metà del secolo, come sono descritte nel diario di viaggio dell’abate Alberto Fortis. Rivolte di piazza non erano mancate del resto nella Dalmazia veneta nel corso del 1600. Gli storici degli anni 1960 vi vollero leggere un risveglio di coscienza etnica da parte dei croati oppressi da Venezia. Oggi si tende ad inquadrare quegli avvenimenti nel generale fenomeno di inquietudine sociale tipica della prima metà di quel secolo, quando l’affermazione del capitale mercantile sulla proprietà terriera e l’entrata in crisi dei mestieri tradizionali seminarono la miseria tra i ceti artigiani (tessitori, calzolai, ecc.) e quelli contadini, per la concorrenza di nuovi prodotti sui mercati. Di qui il disagio dei ceti che si vedevano arretrare socialmente e la reazione spesso violenta dei ceti aristocratici terrieri, che si sentivano indeboliti dalla nuova borghesia mercantile. Nella rivolta di Curzola, non dissimile nelle sue modalità da altre sommosse nell’Europa di quegli anni (Napoli, Milano,ecc.), diventa significativo l’intervento del governo veneziano a favore del partito popolare contro la nobiltà locale, per riportare l’ordine e la legalità che quest’ultima, per la sua durezza conservatrice, non sapeva più garantire.
Un altro aspetto notevole della Dalmazia veneziana fu il riordino urbanistico delle città che furono munite di acquedotti, cisterne, fontane in misura tale da garantire l’autosufficienza in caso di assedio nemico. Soldi ben spesi visti i numerosi assedi e il loro esito vittorioso! Altrettanto ben spese, per la stessa ragione, le risorse impiegate nella costruzione dei forti e dei bastioni cittadini. Da Pirano a Corfù a Cefalonia, tutta la costa adriatico-ionica fu munita di fortezze inespugnabili, capolavori di ingegneria militare, non inferiori alle opere di un Sangallo, di un Michelangelo, di un Vauban, e messe alla prova dei fatti assai più di quelle. Né fu trascurato l’aspetto estetico, che nella Porta Terraferma di Zara, nei forti di Sebenico e di Cattaro produsse autentiche opere d’arte , dovute al Sammicheli e alla sua scuola. Altrettanto si dica per i formidabili bastioni di Ragusa, disegnati dai migliori architetti d’Italia e d’Europa.

Zara. Porta Marina
Zara. Porta Marina
Zara. Porta di Terra Ferma
Zara. Porta di Terra Ferma

Le Logge cittadine, destinate all’amministrazione della giustizia, sono l’ultimo tocco di eleganza rinascimentale e barocca delle cittadine dalmate, aperte sulle piazzette o sulle rive al vento e alla brezza di quel mare che tutti chiamavano con orgoglio Golfo di Venezia.
Se si scorrono i nomi dei nobili che meritarono la più alta onorificenza della Repubblica Veneta, l’Ordine di San Marco, constatiamo che i dalmati sono i più numerosi tra i sudditi sia del Dominio da Mar che del Dominio de Terra. Basta una sola motivazione per darci un’idea del rapporto che legava alla Repubblica la piccola nobiltà dalmata (ved. Piero Pazzi “Storia documentata dei Cavalieri di San Marco”, Archivium Historicum Diocesanum Cathari”, Cattaro, 2008).
Un ruolo notevole svolsero nello sviluppo economico e culturale della Dalmazia le comunità israelitiche. Dopo l’espulsione degli Ebrei dalla Spagna con il decreto reale del 1492 molti profughi sefarditi trovarono asilo a Venezia e in altre città della Serenissima, così come nei centri più importanti dell’impero ottomano e a Ragusa. In quest’ultima città essi costituirono una comunità molto prospera che contribuì allo sviluppo di quella piccola Repubblica. A metà del Seicento il Senato veneziano decise di fondare una “Scala” a Spalato, per frenare la concorrenza ragusea e vi favorì il trasferimento di mercanti, artigiani e professionisti dal Ghetto di Venezia. Queste comunità di ebrei dalmati, saldandosi più tardi con quelle presenti nelle città asburgiche, da Trieste a Budapest, da Fiume a Cracovia, saranno un tramite importante nella politica economica sia di Venezia che della Casa d’Austria.
L’antica Repubblica di Venezia cessò di esistere il 12 maggio 1797 sotto la pressione delle armate napoleoniche e per un baratto austro-francese. La Repubblica periva di vecchiezza, come un vecchio signore stanco di mille anni di lotte. Le ultime resistenze dei battaglioni di Schiavoni, che costituivano la guardia del doge, e delle ultime cernide di ultramarini accorsi dalla Dalmazia per difendere la madrepatria, furono piegate con un ordine espresso del Gran Consiglio.
Nelle città dalmate si susseguirono le cerimonie solenni dell’ammaina-bandiera dei gonfaloni di S. Marco, che vennero risposti sotto gli altari, accanto alle reliquie dei martiri, quale pegno per l’avvenire. Celebre è rimasto il discorso del gonfaloniere di Perasto, il conte Giuseppe Viscovich, che ci è pervenuto in due versioni, veneta e serbo-croata, a testimoniare l’unanime cordoglio e fierezza delle genti dalmate, al di sopra di ogni diversità etnica. “Per trecentosettansette anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite le xe stae sempre per Ti, o San Marco; e fedelissimi sempre se avemo reputà. TI CON N, NU CON TI, e sempre con Ti sul mar nu semo stai illustri e vittoriosi. Nissun con Ti ne ha visto scampar, nissun ne ha visto vinti e paurosi.! E se i tempi presenti, infelicissimi per imprevidenza, per dissension, per arbitri illegali, per vizi offendenti la natura e el gius de le genti, non Te avesse tolto da l’Italia, per Ti in perpetuo sarave le nostre sostanze, el nostro sangue, la vita nostra…”

Discorso pronunciato a Perasto
Discorso pronunciato a Perasto