Pace di Aquisgrana

Dalla pace di Aquisgrana (812) alla fine della sovranità bizantina (1204)

Scritto da Lucio Toth
Bisogna giungere all’alba del IX secolo perché la Dalmazia torni protagonista di un capitolo fondamentale della storia europea. Nella sua politica di espansione verso l’Europa orientale e i Balcani, Carlo Magno, come respinse indietro per centinaia di miglia la penetrazione dei popoli slavi nel Norico, fondando la Marca d’Austria, così riuscì a sottrarre all’influenza bizantina i duchi croati che governavano le regioni pannoniche nord-occidentali (801-802).
Come in tutte le regioni italiane contese tra l’eredità bizantina e quella longobarda, si formarono anche a Venezia e in Dalmazia – legate dalla medesima situazione di marginalità tra le due grandi potenze che si dividevano la cristianità: il persistente Impero Romano d’Oriente e il blocco di paesi euro-occidentali che costituivano ormai di fatto l’Impero carolingio (le Gallie e parte dell’Iberia, la Germania fino all’Elba e oltre, l’Elvezia e il Norico, gran parte della penisola italiana) – un partito francofilo e uno filo-bizantino.
Sia nelle lagune venete che in Dalmazia dovette prevalere nei primi anni del secolo il partito carolingio se le cronache dell’epoca ci fanno trovare come ambasciatori a Salz nell’805 i duchi veneziani Obelerio e Beato e i dalmati Paolo e Donato, rispettivamente dux e vescovo di Zara a nome dell’intera provincia, i quali affidano al re dei Franchi – già incoronato “imperatore” d’Occidente dal papa Leone III a Roma nel Natale dell’800 – il governo delle coste venete e dalmate.
La reazione del nuovo imperatore d’Oriente Niceforo all’ambasceria veneto-dalmata fu per quei tempi immediata. Una flotta bizantina, guidata dall’ammiraglio Niceta, si inoltra nell’Adriatico nell’806. Senza colpo ferire riottiene la sottomissione a Bisanzio di dalmati e veneziani.
Iniziano a questo punto laboriosi negoziati tra i due imperi, che si concludono nell’812 con la pace stipulata ad Aquisgrana: Carlo Magno rinuncia alla sovranità, mai acquisita ufficialmente, sulle Venezie bizantine (sostanzialmente le lagune da Chioggia a Grado) e sulla Dalmazia in cambio del riconoscimento del titolo imperiale, anche se Michele III conserva solo per sé e i suoi successori il titolo pieno di “Imperatore dei Romani”. Sul piano del diritto internazionale l’evento è comunque di importanza capitale. Solo il titolare reale della corona imperiale, cioè l’imperatore d’Oriente, aveva la potestà di riconoscere il nuovo sovrano della parte occidentale dell’impero. L’incoronazione papale aveva un grande valore per l’autorità morale che conferiva ad un re di “Barbari”, ma solo Bisanzio poteva elevare questo re germanico a sovrano legittimo dell’Europa occidentale.
Dalmazia e Venezia sono il prezzo di questa concessione. Tanto esse sono considerate importanti dalle due massime potenze dell’epoca! Come a Salona si era spento l’ultimo successore occidentale di Augusto, così la Dalmazia diventa il premio di un patto che fa rinascere in occidente il “Sacro Romano Impero”.
Da questo momento si può ormai parlare di un’organizzazione “tematica” della Dalmazia, tipica di quello che sarà per secoli l’assetto amministrativo-militare dello stato bizantino. La caratteristica essenziale del tema (????) sarà infatti la concentrazione in un unico funzionario del potere civile e militare, che avrà il nome di stratego (????????? – dux). Ad un ???????? o lociservator verrà affidato il governo delle città e ai tribuni il comando delle milizie. Capitale del tema e sede dello stratego sarà ormai Zara.

Zara - San Donato, edificio bizantino del IX secolo a pianta circolare come San Vitale di Ravenna e la Cappella Palatina di Aquisgrana
Zara - San Donato, edificio bizantino del IX secolo a pianta circolare come San Vitale di Ravenna e la Cappella Palatina di Aquisgrana

A dimostrare la forza dell’identità latina delle città dalmate, come delle città delle Lagune venete (Chioggia, Venezia, Caorle, Grado), rimane il fatto che, malgrado la dipendenza istituzionale da Bisanzio, la lingua dell’amministrazione, dell’esercito, della chiesa e delle popolazioni resterà comunque quella latina, nelle varie declinazioni locali, in stretta connessione con la penisola istriana e il Quarnero. In Dalmazia il latino si evolverà nella nuova lingua romanza che i glottologi Wilhem Meyer-Lübke e Matteo Bartoli chiameranno dalmatico, diffuso su alcune isole dell’arcipelago e in terraferma, in una singolare simbiosi a macchia di leopardo con gli idiomi slavi, da cui resterà totalmente distinto pur trasferendo ad essi non solo parte della toponomastica ma molti termini del lessico domestico, agricolo e marinaresco.
Acquisita sul piano storiografico la sovranità formale di Bisanzio sulla Dalmazia nei secoli tra il IX e il XIII si è sempre posta agli storici e ai giuristi una domanda fondamentale e inquietante. Come si conciliava questa situazione ”de iure” con la contemporanea indubitabile esistenza di stati continentali fondati dai popoli slavi nell’entroterra balcanico dell’antico Illiricum? E come si concilierà dal 1076 in poi questa sovranità del Basileus di Costantinopoli con il titolo di “rex Dalmatiae et Croatiae” riconosciuto dal papa ai dinasti croati prima e ungheresi poi, mentre negli stessi secoli il doge di Venezia si sta fregiando del titolo, altrettanto legittimo, di “dux Dalmatiae”?
La risposta a questo interrogativo non può essere che flessibile, nel senso che essa va commisurata di volta in volta alla situazione politica concreta e alle diverse mentalità dei soggetti interessati. Altri erano i concetti giuridici di una corte evoluta, erede diretta della dottrina e della giurisprudenza romana, come quella di Bisanzio; altri quelli di una corte altrettanto evoluta, come quella papale di Roma, intenta a strappare il più possibile di potestas civile all’Impero orientale e a concederne il meno possibile a quello occidentale; altra infine la percezione di queste distinzioni e controversie, tutt’altro che formali, da parte dei sovrani che si succedevano sui troni degli stati slavi.
Si erano infatti venuti formando, dopo il crollo del regno degli Avari (fine del VII sec.), alcuni Stati slavi a ridosso delle Alpi Dinariche, nelle pianure e negli altipiani interni della Balcania occidentale. I nomi, l’estensione loro, le dinastie che li governano, variano naturalmente nell’arco di quei secoli lontani. A nord, dalla Sava alle Dinariche troviamo fin dal IX secolo uno Stato dei Croati; più a Sud, negli altipiani e nelle valli dell’ Illirico centrale, la “Bossina”, nome latinizzato dell’antica Bosnia; nell’ampio bassopiano del medio Danubio e nei bacini della Morava e del Vardar (l’Axiopòtamos dei greci) lo Stato di Rascia, antenato del Regno dei Serbi, e più verso il mare gli Stati più piccoli: Pagania, alle foci della Narenta; Zacumia; Travunia, alle spalle di Ragusa; Zeta e Doclea, che coprivano territori fra l’attuale Montenegro e il Kossovo.
Di questi Stati quello che raggiungerà la maggiore estensione, indipendenza e
potenza effettiva sarà il Regno di Serbia, che arriverà in alcuni periodi fino a toccare le rive dell’Egeo, in un rapporto di perenne conflitto-collaborazione con l’impero bizantino e quasi sempre di aperto contrasto con i vicini regni dei Bulgari ad est e dei Magiari a nord.
Tutti gli Stati formatisi sull’antico Illirico tendevano come spinta naturale verso l’Adriatico e quindi verso le coste dalmate e albanesi. Di qui l’inevitabilità dei rapporti con le città “bizantine” della Dalmazia.
Un importante documento dell’anno 873 ci mostra l’atteggiamento ed il ruolo del pontefice romano nei confronti della Dalmazia e dei neonati Stati balcanici che premono sulle coste. Giovanni VIII si rivolge a chi si può considerare a capo dello stato croato con queste parole: “Domagoi, duci gloriosi. Praeterea devotionis tuae studium exortamur ut contra marinos ladruncolos, qui sub praetextu tui nominis in christicolas debachantur…” E’ un capolavoro di diplomazia pontificia perché l’esortazione al leader slavo per far cessare le scorrerie che in suo nome i pirati croati, già insediatisi nelle più ricettive affrantuosità della costa, compiono contro i navigli delle città “cristiane” è accompagnata dall’avvertimento che in caso contrario si dovrà ritenere che l’uso che essi fanno della sua protezione non sia vano e che, in tal caso, sarebbe direttamente a lui che si dovrebbe addossare la responsabilità di queste incursioni.
E’ infatti dai primi decenni del secolo IX che si verifica il fenomeno della pirateria slava nei confronti delle flotte mercantili che percorrono l’Adriatico da Bisanzio e dal Levante verso Venezia e l’alto Adriatico. Fenomeno che terrà occupate per secoli sia le città rivierasche delle due sponde che la marina bizantina, impegnata a difendere i suoi territori adriatici (Puglia e Dalmazia), e più tardi le flotte veneziane e normanne.
Una parte della storiografia croata darà di questo fenomeno una valutazione positiva, come espressione di libertà e di indipendenza e al tempo stesso di valentia marinara del nuovo popolo da poco affacciatosi sulle sponde mediterranee. Un’altra parte invece porrà in risalto il ruolo positivo dei sovrani croati nel contenere tale fenomeno, a protezione delle città costiere e in ossequio alle richieste papali e alle proteste bizantine.
Sta di fatto che lo stesso pontefice Giovanni VIII, pochi anni dopo, nell’879, rivolgendosi ai vescovi dalmati che a lui si erano rivolti in tal senso, dopo averli esortati a restare uniti alla Chiesa di Roma e a non gravitare religiosamente verso il patriarca di Costantinopoli, li rassicura: “Si aliquid de parte graecorum vel sclavorum dubitatis… sappiate che noi, secondo gli insegnamenti stabiliti dai santi padri e dai nostri predecessori, prenderemo cura di voi”.
Si ha quindi la riprova di un gioco politico-religioso al cui centro sono le città latine della Dalmazia: da un lato Bisanzio che ne rivendica la sovranità e cerca nel contempo di staccarle religiosamente da Roma; dall’altro la Chiesa romana, che difende la sua giurisdizione ecclesiastica contro Bisanzio; e infine i sovrani croati che, oscillando tra il vassallaggio ai due imperi (a volte quello franco, a volte quello bizantino) cercano di consolidare il loro potere nell’interno della Croazia e ad estenderlo alle città latine.
Si manifesta in questo periodo anche la rivalità tra la neonata diocesi di Nona, fondata alla fine del IX secolo proprio per evangelizzare la popolazione slava della Dalmazia, e le antiche diocesi dalmate fondate nei primi secoli dell’era cristiana e insediate nelle città romaniche sotto sovranità bizantina.

Nona Nin. Chiesa paleo-croata di Santa Croce del IX secolo
Nona Nin. Chiesa paleo-croata di Santa Croce del IX secolo

E’ bene chiarire al riguardo come le missioni dei monaci greci Metodio e Cirillo, mandati da Costantinopoli dopo l’863 a predicare il vangelo ai popoli slavi dell’Europa centro-orientale, riguarda le regioni e le popolazioni non cristianizzate che erano rimaste fuori dell’impero romano, non le province dell’Illirico già munite – come si è visto – di diocesi e monasteri. Risale ai due missionari la creazione del primo alfabeto slavo, il glagolitico, traducendo in paleo-slavo i testi liturgici. Il nuovo alfabeto si diffuse soprattutto tra la popolazione croata tanto che verrà poi interpretato come elemento di identificazione nazionale.

Antiche iscrizioni glagolitiche si sono trovate in territorio dalmato e anche a Veglia, la stessa isola dove una parte della popolazione continuava parlare in dalmatico romanzo fino addirittura al secolo XIX, mentre nei centri urbani si usava, dal XV secolo, il veneto-dalmato. Queste apparenti contraddizioni debbono indurre a grande prudenza quando si vogliono definire nel passato presunte appartenenze o “linee” etniche, favorendo tesi più o meno preconcette di carattere religioso o nazionale.
Totalmente diverso dal glagolitico è invece l’alfabeto detto “cirillico”, che compare in Bulgaria a metà del secolo 10° ed è impropriamente attribuito al monaco Cirillo, che era morto a Roma nel 669, ospite del monastero di San Clemente. L’alfabeto cirillico è un adattamento dell’alfabeto greco ai fonemi delle lingue slave ed è stato adottato dalle Chiese ortodosse russa, ucraina, serba, bulgara, ecc. diventando quindi l’alfabeto delle corrispondenti lingue moderne.
Sulla permanente latinità delle città della costa e delle isole dalmate non si possono tuttavia nutrire dubbi oggettivamente fondati. Dalla testimonianza dell’imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito (915-959) nella sua opera “De administrando imperio” alle descrizioni dei cronisti e dei viaggiatori, si dà atto del carattere etnicamente e linguisticamente composito della regione dalmata. Scrivendo nel 969 l’imperatore, dopo aver parlato delle popolazioni croate e serbe dell’antico Illirico, così si esprime: “Caeteri vero Romani in orae maritimae oppidis servati sunt, eaque etiam nunc tenent, et sunt ista” e nomina tra i centri maggiori Ragusa, Spalato, Zara, e tra le ???????? – oppidula Arbe, Traù, Ossero, Veglia. “Eorumque abitatores – aggiunge – in hodiernum usque diem Romani noncupantur” (“Romani si chiamano”, De amnistrando…29-30).
Un secolo dopo Guglielmo di Tiro, storico della prima crociata, così descrive la regione nel 1096: “Est autem Dalmatia, populo ferocissimo rapinis et cedibus assueto, inhabitata, exceptis paucis qui in oris maritimis habitant, qui ab aliis et moribus et lingua dissimiles, latinum habent idiomam, reliquis slavonico sermone utentibus et habitu barbarorum” (Racki, Documenta Croatorum, Zagabria 1877).
Il passo ha dato luogo a interpretazioni contrastanti al punto da contestarne l’autenticità. E’ in effetti un passo scomodo e imbarazzante. Da un lato infatti dà atto che la Dalmazia era fin da allora abitata prevalentemente da popolazioni slave, dall’altro si riconosce la permanenza e l’autoctonia delle città latine (Arbe, Zara, Spalato, Ragusa, Traù, Curzola, Cattaro, ecc.) o anche “romanze”, come vengono chiamate nella pubblicistica serba e romena.
Lo storico serbo Sima Cirkovi?, a proposito della diffusione di influenze romaniche occidentali nell’edilizia religiosa della penisola balcanica, e in particolare del Montenegro e della Serbia, così scrive: “nelle chiese del secolo XII e di quello successivo, queste indicazioni rimandano inequivocabilmente a una origine occidentale, ad ambienti nei quali quei maestri avevano potuto conoscere i modelli romanici. Non c’è uniformità di pareri sulla provenienza dei costruttori e degli scalpellini dei monumenti rasciani, se cioè provenissero dalle città latine della costa adriatica, come Antivari, Cattaro, Ragusa, Spalato e Zara, che erano i centri più vicini, oppure dalle città della corrispondente costa dell’Italia meridionale…” (“I Serbi nel Medio Evo”, Jaka Book 1992).
Dello stesso tenore sono i numerosi passi dedicati alla Dalmazia dal bizantinologo Georg Ostrogorsky (“Storia dell’impero bizantino”, Monaco 1963; trad. ital. Einaudi 1968-1993). Osserva lo storico che “se si vuole capire quali regioni fossero effettivamente in possesso dell’impero bizantino, che non si limitassero cioè a riconoscere nominalmente la sovranità bizantina, ma sottostessero effettivamente alla sua amministrazione, bisogna vedere fin dove si estendeva l’organizzazione dei temi…La Tracia e l’Ellade erano gli unici temi che Bisanzio possedesse nella penisola balcanica dalla fine del VII secolo…A partire dagli ultimi anni dell’VIII secolo…esistette già sicuramente un autonomo tema macedone… Il tema del Peloponneso venne fondato più o meno nello stesso periodo. Più tardi quello di Cefalonia…Nella seconda metà del IX secolo sorse infine il tema di Dalmazia, che comprendeva le città dalmate e le isole…A poco a poco Bisanzio fu in grado di riunire entro la cornice dei suoi temi quasi tutto il litorale, parte in più vaste, parte in più strette fasce. Nella zona costiera, che era accessibile alla sua flotta ed era ricca di città e porti, l’impero aveva restaurato la sua sovranità e il suo sistema amministrativo. Ma qui finivano gli effetti della nuova occupazione bizantina: l’interno del paese rimase anche in seguito al di fuori della sua portata” (ibidem, pag.174).
Nella storiografia croata sono emerse interpretazioni confliggenti circa il ruolo svolto dalle città dalmate nello sviluppo del popolo croato nel Medio Evo, e in particolare nel breve periodo del regno croato nel secolo XI. Per taluni esse svolsero, con la loro cultura latina e la loro sostanziale fedeltà alla Chiesa romana, un ruolo positivo facilitando la diffusione del cristianesimo e dei modelli occidentali tra la popolazione slava della regione dalmata e dell’entroterra croato propriamente detto e trasferendo nelle lingue slave forme, concetti, acquisizioni tecnologiche della cultura italiana ed europea occidentale in genere. Per altri sarebbe stata proprio l’influenza nefasta del clero latino delle città dalmate sulla corte dei re croati a determinare il distacco di quei sovrani dall’anima popolare slava della maggioranza dei loro sudditi, causando le profonde divisioni tra i signori croati dell’interno, la rapida decadenza del regno e la sua caduta sotto la corona ungherese nel 1080, cioè ad appena quattro anni dall’incoronazione di Zvonimiro a re dei croati da parte del legato pontificio inviato a Salona dal papa Gregorio VII.
Una personalità sintomatica di questo contrasto è Gregorio di Nona, vescovo della diocesi croata fondata a poche miglia dalla città di Zara e quindi un doppione sul piano territoriale, se non avesse avuto la funzione specifica di rivolgersi alla popolazione croata del territorio a nord della città latina. Propugnatore dell’uso del glagolitico, Gregorio fu proprio per questo fieramente avversato dall’arcivescovo di Spalato e dagli altri vescovi dalmati, che difendevano l’uso del latino, come raccomandato dalla Chiesa di Roma. Assunse in epoca recente la figura di un eroe nazionale croato, tanto che una sua colossale statua, opera dello scultore croato-americano Ivan Mestrovi?, era stata collocata nella piazza del Peristilio a Spalato, per poi essere onorevolmente trasferita altrove per l’effetto che la sua possanza atletica e la sua mole produceva sull’elegante prospettiva del colonnato dioclezianeo.

E’ in questo quadro complesso che va inserita la politica di Bisanzio prima e di Venezia poi nell’Adriatico orientale. Fu il grande imperatore bizantino Basilio I, restauratore e riorganizzatore del vasto impero che andava dai deserti siriani alle coste adriatiche e tirreniche, a costituire a meta del IX secolo, il “Thema Dalmatiae” con capitale Zara per riordinare sotto la sovranità greca quella provincia costiera, così come nello stesso torno di tempo aveva riconquistato e riorganizzato il “Thema Langobardiae”, comprendente le Puglie, la Calabria e la Basilicata, che appunto da lui prese il nome.
E fu proprio nella riconquista delle Puglie che si realizzò una collaborazione significativa della situazione politica e militare dell’Adriatico in quel periodo. I due imperatori, Ludovico II di Baviera, re dell’Italia centro-settentrionale, e Basilio I riunirono l’esercito del primo e la flotta del secondo per cacciare gli Arabi dalla Terra di Bari dove si erano insediati. Alla spedizione parteciparono con le forze bizantine le navi da guerra e da carico delle città dalmate e in particolare di Ragusa e le milizie croate che su di esse furono traghettate. La campagna durò dall’867 all’871 e si concluse con la liberazione di Bari e la restaurazione del dominio bizantino. Non fu l’unico episodio di cooperazione militare tra bizantini, franchi e slavi nella difesa delle coste meridionali italiane contro le incursioni saracene in quell’epoca. E le città latine di Dalmazia facevano da tramite con le loro flotte e i loro armati, insieme alla nascente marina veneziana. Si vedano ad esempio le operazioni sul Gargano per la difesa del santuario di Monte Sant’Angelo.
Oltre un secolo dopo sarà Basilio II, detto Bulgaroctono (letteralmente massacratore dei Bulgari, 976–1025) a riordinare il tema dalmato con le sue due città principali, Zara a nord e Ragusa a sud.
Ed è sempre in nome dell’imperatore greco che i dogi veneziani intrapresero le loro spedizioni dalmate, a cominciare da quella famosa di Pietro II Orseolo nell’anno 1000, che accorse in aiuto delle città dalmate e istriane che ne avevano invocato il soccorso contro la pressione dei pirati narentani e dei re croati.
La situazione politica appare abbastanza chiara. Pur nell’inevitabile altalenare dei partiti interni alle città dalmate – che si andavano organizzando nelle forme comunali italiane – rimane sempre fermo, fino alla fine del sec. XII, il riconoscimento della sovranità di Bisanzio. Gli atti notarili degli archivi dalmati recano costantemente l’intestazione al basileus regnante in quel momento a Costantinopoli.
Altri dedicano l’intestazione al papa di quel periodo. Nessuno ai re croati; nemmeno quelli che si riferiscono a negozi giuridici compiuti da alcuni di questi re, come il noto – ed apocrifo – atto di donazione di re Crescimiro all’abate di San Grisogono di una piccola isola dell’arcipelago zaratino (attribuito all’anno 1069).
La spiegazione più attendibile che si può dare a questa sovrapposizione di competenze sovrane è che effettivamente sulle città latine della Dalmazia venisse riconosciuta dai re croati e voluta dalle autorità cittadine la sovranità di Bisanzio, rappresentata dall’esistenza e dalla permanenza del Tema di Dalmazia, a meno di non voler considerare gli imperatori e le cancellerie costantinopolitane affetti da forme di mitomania che alteravano la realtà delle cose, allo stesso modo dei notai dalmati che a quegli imperatori intestavano i loro atti, riguardanti gli affari più delicati e importanti per le famiglie, come la proprietà immobiliare, le successioni, ecc. E’ impensabile che tecnici del diritto redigessero atti nulli o inutilizzabili perché intitolati ad un’autorità statale inesistente, mentre è evidente che l’intestazione al sovrano legittimo aveva proprio lo scopo di conferire agli atti il massimo di autorevolezza.
Solo che ovviamente, per la lontananza della capitale dell’impero e delle sue basi militari, le autorità cittadine dalmate non potevano non tener conto della realtà fattuale della presenza nel loro immediato entroterra di un sovrano croato, straniero si sul piano formale, ma fin troppo presente su quello materiale, che esercitava sulle sue terre, finitime al contado cittadino, un’autorità che era stata in qualche modo legittimata dalle stesse autorità bizantine e dal Papa di Roma.
Anche il cosiddetto ”praetium pacis” che le città dalmate pagavano in alcuni periodi ai sovrani croati erano l’espressione di una delega espressa dell’imperatore greco, che aveva devoluto il tributo a lui dovuto come sovrano legittimo a questi capi croati, per tenerseli buoni ed indurli a rispettare l’autonomia delle magistrature cittadine e le loro costumanze latine. Quando infatti l’autorità di Bisanzio o di Venezia poteva essere esercita con maggiore efficacia i comuni dalmati venivano liberati da questo tributo. Che era umiliante per tutti: per i re croati perché ne sottolineava la subalternità all’impero orientale (ma ne beneficiavano volentieri perché gli iperperi bizantini erano il denaro più pregiato dell’epoca); per Bisanzio perché ne rimarcava l’impotenza a difendere con efficacia città che ad esso appartenevano; per i comuni dalmati e per Venezia (anch’essa coinvolta in questa obbligazione) perché era il segno della loro incapacità di difendersi da soli dalle soperchierie del vicino stato croato.
Che i sovrani croati e lo stesso papa osservassero scrupolosamente la sovranità bizantina è dimostrata dal fatto singolare, rimarcato da tutti gli storici, che i re croati non stabilirono mai la loro sede in una delle città riconosciute come bizantine, ma quando risiedevano in Dalmazia sceglievano la cittadina di Belgrado (Biograd na more), che i dalmati chiamarono poi Zaravecchia (ma che non aveva alcuna attinenza con la loro città, trovandosi decine di miglia più a sud). Ma il fatto giuridicamente più significativo fu che quando Zvonimiro nel 1076 fu incoronato re dal legato papale questo evento solenne per il popolo croato non avvenne in nessuna delle città latine con le loro splendide basiliche, ma tra le rovine di Salona. E questo proprio perché una cerimonia del genere non poteva svolgersi in una città che giuridicamente non apparteneva allo Stato croato (Ferdinand Šiši?, “Povijest Hrvata u vrijeme narodnih vladara”, Zagabria 1925).
Su questo argomento dopo le controversie del passato la storiografia croata non ha difficoltà a riconoscere che “dopo la pace di Aquisgrana le principali città dalmate rimasero sotto il dominio politico dell’impero bizantino, che allora confinava con il giovane regno di Croazia”, come si legge nella presentazione delle mostre “Croati e Carolingi” organizzate negli ultimi anni in varie città europee dal governo di Zagabria.
Un aspetto interessante di questo periodo torna ad essere quello religioso. Mentre va maturando nell’XI secolo il grande scisma tra cattolici e ortodossi la Chiesa di Roma intraprende una vigorosa campagna di penetrazione attraverso l’ordine benedettino sia in Croazia che in Dalmazia e nell’Italia meridionale, ove si erano diffuse le Laure basiliane, monasteri incastonati nelle rupi dell’Appennino e delle Murge, centri di diffusione dell’ordine fondato da San Basilio il Grande e ovviamente legati al Patriarca di Costantinopoli. I Benedettini, con le loro abbazie nelle aree di confine dalle Alpi orientali alla Dalmazia e al Sud d’Italia, dovevano assicurare il controllo e la fedeltà alla Chiesa di Roma. Spesso però entravano in conflitto con i vescovi e il clero locale, come testimoniano privilegi e atti di donazione che gli uni e gli altri ottengono da papi, re e imperatori dell’una e dell’altra parte.
Tra il 1080 e il 1090 il regno croato, appena realizzato da Zvonimiro – che aveva assunto il nome di Demetrio – si disfaceva e la sua eredità passava a Ladislao I, re d’Ungheria. Da allora la Croazia giuridicamente farà parte della corona ungherese fino al 1918, pur conservando sempre la sua identità linguistica e nazionale.
Malgrado questo passaggio ereditario, fino a quasi tutto il secolo XII le città della Dalmazia continuarono ad essere considerate e si considerarono soggette a Bisanzio e l’atteggiamento dei re ungheresi verso di esse si mantenne negli stessi limiti dei precedenti re croati: il rispetto delle libertà comunali e della sovranità bizantina. “Rex stetit ante fores iurans prius urbis honores” fu la formula imposta a re Colomano d’Ungheria per entrare a Zara a firmare la pace tra la corona e i comuni dalmati (1107).
Ma intanto le città dalmate venivano intrecciando i loro rapporti con le città istriane, con quelle della penisola italiana e con i più potenti comuni marinari: Venezia, Genova e Pisa. Numerosi sono i trattati di commercio e di regolamentazione dei rapporti giuridici tra i rispettivi “cives” che le città dalmate stringono con Ancona, Termoli e le città pugliesi. In particolare sono Zara e Ragusa le due città più restie ad accettare in questi secoli la supremazia veneziana sull’Adriatico, per gelosia di traffici e orgoglio cittadino.
Ed è a Zara che Venezia commetterà uno dei suoi misfatti storici: l’assalto e la conquista della città nel 1202 come prezzo imposto ai cavalieri occidentali della IV crociata per portarli con le sue navi in Terrasanta. Gesto che costerà alla Repubblica la immediata scomunica papale. E sempre sotto le mura di Zara verrà siglato l’accordo con il pretendente al trono di Bisanzio, Alessio Angelo, che porterà all’altro misfatto storico della Serenissima: l’assedio e la conquista della cristiana Costantinopoli nel 1204 da parte dei crociati e la fondazione dell’effimero Impero Latino d’Oriente.

Iadra ad cedem - Zara alla rovina.
Ravenna: pavimento della Basilica di San Giovanni Evangelista
Iadra ad cedem - Zara alla rovina. Ravenna: pavimento della Basilica di San Giovanni Evangelista

Fu con quel “misfatto” però che la Repubblica del leone si assicurerà l’eredità commerciale, politica e militare di Bisanzio nel Mediterraneo orientale, due secoli e mezzo prima del crollo definitivo dell’Impero romano d’Oriente.