F. Gullino, «Quando la maestra insegnava: “T come Trst”»

Scritto da Paolo Simoncelli, «Avvenire», 04/06/11
Federica Gullino, QUANDO LA MAESTRA INSEGNAVA: «T COME TRST». Propaganda e scuola anti-italiana nella Trieste jugoslava, Milano, Franco Angeli, 112 pp. (€ 16,00).

Pagine amare quelle che documenta Federica Gullino. Dagli ultimi anni di guerra, quando le zone italiane di confine occupate dai comunisti titini videro aprirsi nuove scuole con insegnanti nominati per meriti partigiani, alle continue aggressioni fisiche nei confronti della popolazione, alla sanguinaria attitudine inglese a stroncare manifestazioni popolari, alle umiliazioni diplomatiche subite dall’Italia (pur dopo il suo ingresso nel Patto atlantico)… Un insieme tragico e vessatorio che non poteva che far sperare che col Memorandum d’intesa di Londra, firmato il 5 ottobre ’54, i rapporti italojugoslavi potessero avviarsi alla normalizzazione. Al Memorandum era allegato uno Statuto speciale per la tutela linguistica e culturale delle rispettive minoranze che assunse ovviamente funzioni e interpretazioni diverse a seconda di dove, da quale confine, lo si osservasse.
Nasce così la possibilità di documentare su base di inedite relazioni diplomatiche, fornite alla Gullino dall’ambasciatore Pasquale Baldocci, al tempo viceconsole generale a Capodistria, la situazione della scuola italiana nelle terre della Zone B di fatto ormai jugoslave. Dopo che per anni, alla defascistizzazione dei libri di testo era stato sostituito un programma ideologico uguale e contrario, dopo che appariva conclamato nei nuovi testi scolastici che la Jugoslavia si considerava in debito territoriale con l’Italia per non aver avuto tutta Trieste e Gorizia e l’Istria, le visite ufficiali svolte in loco da Baldocci nel 1959-60 (sempre alla presenza di un vigile funzionario jugoslavo) offrirono un’immagine tutt’altro che decantata delle tensioni politicoculturali: chiuse con vari pretesti le scuole italiane; i circoli di cosiddetta cultura italiana risultavano centri di indottrinamento ideologico dove circolavano solo giornali comunisti italiani e dove campeggiavano ritratti e busti di Tito, Lenin e Dante. «Per la storia – scrive Baldocci – si adopera ancora in certe scuole un volume tradotto dal russo nel 1945!», in altre «i Romani vengono descritti come barbari predoni e i veneziani come pirati, saccheggiatori e massacratori delle popolazioni slave»; e non solo: i nuovi autori italiani, locali, per eccesso di zelo ideologico finivano per scrivere di peggio: «Non di rado – commenta Baldocci – sono meno antiitaliani i manuali tradotti dallo sloveno o dal serbo-croato».
A questo punto risultava controproducente, da parte italiana, continuare a finanziare i circoli o mostrarsi pronti a nuove concessioni alla minoranza jugoslava vivente nella Zona A (occidentale) sperando in un’inesistente reciprocità; avrebbe significato abbandonare consapevolmente «la nostra minoranza alla politica jugoslava di assorbimento». La conclusione sarebbe stata ineffabile, tipicamente italiana: la direzione Affari politici del ministero degli Esteri avrebbe rampognato Baldocci: il suo comportamento «assai poco formale avrebbe potuto provocare spiacevoli incidenti»! Vien da pensare che a Osimo la Jugoslavia non abbia avuto la Valle del Po solo perché non l’aveva chiesta.