Il 25 marzo 1300, oltre sette secoli addietro, Dante Alighieri iniziava il viaggio (letterario) della Divina Commedia. Una data scelta non a caso nell’occasione del Dantedì, la festività nazionale che dal 2020 celebra l’autore della Divina Commedia. Dopotutto, era stato argomentato, se gli irlandesi hanno il Bloomsday, perché gli italiani non possono avere il Dantedì?
Trieste, città moderna tanto nell’architettura quanto nella cultura, non ebbe mai un reale contatto con la figura storica di Dante. Sono tuttavia ricchi e molteplici i legami intrecciati dalla città a partire dall’ottocento, quando la cultura italiana trasformò Dante nel ‘padre della patria’, in una figura sinonimo col concetto di nazione italiana. Quest’iniziale appropriazione di Dante cedette poi il passo, nel novecento, a un recupero di Dante come involontario cantore delle tragedie novecentesche, doloroso vate di un’umanità sofferente nell’inferno dei gulag e dei lager.
C’è molto di Dante nella Trieste novecentesca, partendo sin dall’inizio: proprio il 23 aprile 1900 il poeta Filippo Zamboni tenne la conferenza ‘Il Fonografo e le stelle e la visione del Paradiso di Dante’. Zamboni, definito da Carducci “l’ultimo dei dantisti militanti del Risorgimento”, tenne però un incontro carico d’inquietudini tecnologiche verso il futuro, preannunciato da quel ‘fonografo’ presente nel titolo.
Otto anni dopo Trieste offrì, nell’occasione dell’accensione della lampada di Dante nel cenotafio a Ravenna, l’ampolla votiva di Giovanni Mayer contenente l’olio necessario. Trecento triestini e duecento fiumani affollarono Ravenna, siglando il 1908 come il primo, grande, anno delle celebrazioni dantesche.
C’è molto di Dante anche al Museo Revoltella, rimanendo nell’ambito artistico; nell’ottocento Giuseppe Lorenzo Gatteri dipingeva spesso scene della vita di Dante ed egualmente nel novecento Alberto Martini si ossessionò per quarant’anni dietro la Divina Commedia, ritraendo le sue scene dell’Inferno più orride, più grottesche.
E sempre nei primi decenni del novecento vi era un altro autore triestino che pescava a larghe mani dalla Divina Commedia: James Joyce. Ulysses e Finnegans wake abbondano di riferimenti linguistici a Dante, specie declinati in una chiave sonora, evidente dalla lettura ad alta voce di tratti del testo.
Dante aleggiava anche nei territori – allora e oggigiorno – dilaniati dalla guerra della frontiera orientale del 1915-18: furono infatti due soldati di lingua italiana dell’esercito austro ungarico, Ermete Bonapace dal Trentino e Silvio Viezzoli da Pirano, a scrivere nel campo di prigionia russo di Kirsanov una parodia della Divina Commedia. Uno spaesato Vate si aggira tra le baracche del lager, dialogando coi soldati in feldgrau.
Saltando agli anni Trenta del novecento la poetessa Nella Doria Cambon, la quale si atteggiava a spiritista nella sua casa di via della Geppa 4, evocava spesso Dante Alighieri nella propria casa. Lo spirito rampognava i costumi odierni; sebbene non spiegasse mai, perché tra le tante città italiane avesse scelto la (per lui conosciuta) Trieste.
Negli stessi anni il vate Gabriele D’Annunzio scriveva spesso a Trieste, accompagnando le sue lettere indirizzate al Comune o alla Società Ginnastica Triestina con l’imago del Dante Adriacus. Una litografia di un Dante che fissa negli occhi lo spettatore, fiero di appartenere alle terre lambite dal mar Adriatico.
Un’eclisse nell’estate del 1999, un’umanità avvolta dalle tenebre. È la premessa con la quale Giorgio Pressburger inizia ‘Nel regno oscuro’, dichiarato omaggio alla Commedia di Alighieri. Accompagnato dal Virgilio novecentesco, rivelatosi essere Sigmund Freud, il protagonista rivive l’Inferno del novecento dialogando stavolta non con i peccatori, ma con le vittime delle violenze del ventesimo secolo. Ecco allora il protagonista incontrare gli impiccati di via Ghega del 1944; Arturo Nathan morto nel campo di concentramento di Biberach an der Riss; Gino Parin morto nel lager di Bergen-Belsen e Zoran Musi? sopravvissuto a Dachau. Nessun viaggio ultraterreno, stavolta: si tratta di vicende umane, troppo umane.
Zeno Saracino
Fonte: Trieste News – 25/03/2024