Il Perlasca col saio

Scritto da Ugo Sartorio, «L’Osservatore Romano», 11/11/14
martedì 11 novembre 2014

A volte il tempo stende sulle vicende della vita, piccole o grandi, un velo di polvere che le consegna per sempre all’oblio. Altre volte eventi traumatici del passato, rimasti a lungo sepolti, riprendono a vivere a partire dalla memoria di persone che hanno visto, agito, condiviso. E quanto è successo alla vicenda di Placido Cortese, il frate minore conventuale della comunità religiosa dei frati officiatori della Basilica del Santo di Padova che nella tarda mattinata dell’8 ottobre del 1944 scomparve, quasi risucchiato nel nulla. Due persone si presentarono alla portineria del convento e chiesero a fra Stanislao di poter parlare con padre Placido, aggiungendo che avrebbero desiderato incontrarlo, per motivi di riservatezza, appena oltre il sagrato.

Una di queste era un certo Mirko, di cui padre Placido si fidava, e così il piccolo frate istriano (era nato a Cherso nel 1907) andò incontro al suo destino. Si parla di una macchina nera sulla quale sarebbe stato spinto da due tipi poco raccomandabili, ripartita subito dopo a gran velocità. Già dal giorno seguente ebbero inizio le ricerche, con una lettera del rettore della basilica — padre Lino Brentari — indirizzata alla Questura di Padova: «Dalle prime ore del pomeriggio di ieri, per cause del tutto ignote, risulta assente dal nostro convento del Santo il p. Placido Cortese, religioso sacerdote dell’Ordine». Parole angosciate che non ebbero mai risposta, anche perché, purtroppo, in quei tragici mesi erano molte le persone che sparivano. Solo cinquant’anni dopo, il 19 aprile 1995, a motivo di una testimonianza raccolta quasi casualmente dalla voce di Adele Lapanje, la vicenda di padre Cortese riemerse dall’oblio. Fu allora che monsignor Vitale Bommarco, anch’egli chersino e vescovo di Gorizia, diede nuovo impeto alla ricerca perché si facesse luce sulla misteriosa fine del confratello. Venne così ricostruita l’attività svolta da padre Cortese negli anni della guerra: oltre a prodigarsi per portare soccorsi ai molti internati, per lo più sloveni, nel campo di prigionia di Chiesanuova, alla periferia di Padova, collaborava con una rete di resistenza — la cui sigla era Fra-Ma, dalle iniziali dei cognomi dei due fondatori: Ezio Franceschini e Concetto Marchesi — che aiutava ebrei, antifascisti e militari alleati a raggiungere in treno, via Milano, la neutrale Svizzera. Tutto si svolgeva in un clima di clandestinità, con parole in codice pronunciate dietro la grata di uno dei confessionali della basilica, quello a fianco dell’altare maggiore: «Padre, c’è una scopa da mandare in Svizzera»; «Di che colore, chiara o scura? Attendi e prega mentre provvedo».

Serviva un salvacondotto per far espatriare un fuggiasco, un soldato americano o inglese, o anche un ebreo, e così padre Placido si avviava lentamente verso la tomba del santo che nel lato sinistro era ricoperta di ex voto con un gran numero di fotografie. Ne prendeva alcune, più plausibili, e senza dare nell’occhio le consegnava alla “penitente”. Successivamente queste foto servivano per completare carte d’identità stampate dalla tipografia del «Messaggero di sant’Antonio», di cui padre Cortese era direttore. Tutto andò avanti fino a che il frate non venne catturato con l’inganno e internato nel bunker di piazza Oberdan di Trieste, luogo tristemente famoso per gli interrogatori sotto tortura svolti da membri delle SS. La testimonianza decisiva in proposito venne da Janez Ivo Gregorc, che si trovò anch’egli recluso, per essere interrogato, nello stesso luogo. Aveva solo diciannove anni «Padre Placido — testimoniò — l’avevano bastonato, picchiato; il vestito lacerato e la faccia rigata di sangue. Ho ancora in mente le sue mani deformate e giunte in preghiera». Il celebre pittore sloveno Anton Zoran Music, per un mese prigioniero nelle celle delle torture della Gestapo a Trieste, confidò al compagno Ivo Gregorc: «Mi ricordo che nel bunker di piazza Oberdan c’era un sacerdote, un certo padre Cortese. Erano visibili sul suo corpo i segni delle torture. L’avevano picchiato duramente. Gli avevano spezzato le dita. Mi colpiva la sua tenace volontà di resistere, la fermezza e la fede di quel piccolo e fragile frate, che non si arrese e non tradì mai».

Negli archivi militari londinesi è stata inoltre recuperata la deposizione del sergente Charles Roland Barker, che vide di persona padre Placido nel bunker di piazza Oberdan: «Venne torturato con percosse e flagellazioni, gli furono rotte le gambe, strappate le unghie, bruciati i capelli». Le ultime parole del frate martire — detto anche “il Perlasca col saio” e il “Kolbe italiano” — rivolte a Ivo, sono: «Taci e prega». Un silenzio che Cortese pagò con la vita, salvando molti dall’arresto e da sicura deportazione. A livello diocesano, l’avvio della causa di beatificazione di padre Cortese come martire della carità avvenne il 29 gennaio 2002, a Trieste, con una chiusura simbolica presso la Risiera di San Sabba (luogo più probabile della cremazione del corpo) il 15 ottobre dell’anno successivo. La città di Padova, che gli ha dedicato una via, lo ha inserito nel Giardino dei Giusti inaugurato sei anni fa. Sabato 15 novembre presso la Basilica del Santo a Padova si tiene una commemorazione di padre Placido Cortese nel settantesimo anniversario della morte. Sono, tra l’altro, previste le testimonianze di Teresa Martini e Majda Mozovec, collaboratrici del padre in quella “catena di salvezza” grazie alla quale furono messi in salvo numerosi perseguitati.