Intervento di Davide Rossi dell’Università degli Studi di Trieste alla cerimonia della Camera dei Deputati

Intervento di Davide Rossi dell’Università degli Studi di Trieste alla cerimonia della Camera dei Deputati per il Giorno del Ricordo delle Foibe e dell’Esodo Giuliano-Dalmata “Settantesimo della stipula del Trattato di Parigi del 1947”
10 Febbraio 2017
Presidenti di Camera e Senato,
Onorevoli Deputati e Senatori,
Rappresentanti del Governo,
Autorità civili, militari e religiose,
Gentili signori e signore,
Amici e Fratelli dell’Istria, Fiume e Dalmazia,

Personalmente parlare oggi da questo scranno significa dare voce e vivo ricordo alla mia famiglia, ai miei nonni che quelle terre dovettero abbandonare per aver salva l’esistenza e che mi hanno insegnato a crescere nel rispetto delle proprie tradizioni, della propria lingua e dei costumi, che sono costituiti soprattutto dai luoghi, dai profumi e dai colori di terre che non hanno più potuto vedere e che io ho rivisto – decenni dopo – per loro, in contesti totalmente differenti.
Sono nato nell’anno del Trattato di Osimo, quando ufficialmente – rectius, malamente – si chiudeva la questione giuridica del confine orientale; un accordo gestito irritualmente, firmato in fretta e furia in un piccolo Comune marchigiano, da rappresentanti di un Ministero che non era probabilmente neppure quello competente e che formalizzava quanto già in realtà statuito nel Memorandum di Londra del 1954. Un Trattato, quello di Osimo, non capito in pieno a livello nazionale e che provocò l’ennesima sofferenza a Trieste e alla Venezia Giulia, con delicate ripercussioni politiche, basti pensare alla costituzione della “Lista per Trieste”. Appartengo, quindi, ad una generazione che non ha vissuto i tragici anni della Guerra, le sofferenze delle foibe, le fatiche dell’Esodo e quella paura di non vedere un futuro. Potrei, quindi, raccontare quanto ascoltato da altri in questi anni, narrazioni piene di dolore e patimento, di paura e angoscia per una vita strappata al proprio destino e catapultata in dialetti e usi lontani; ma non potrò mai pienamente rappresentare le lacrime degli occhi di coloro che rievocano angosce e strazi patiti in prima persona.
Mi corre, pertanto, l’obbligo di prendere il testimone, trasformando però il mio compito, concentrandomi sulla ricostruzione storica, di un ricordo che non può esserci fino a quando non vi è effettiva conoscenza dei fatti.
E poco o nulla gli Italiani sanno delle vicende dell’Alto Adriatico nel Novecento.
Un testimone che è portato avanti da Associazioni, ciascuna con le proprie peculiarità e declinazioni, che tentano di mantenere vivo lo spirito memorialistico all’interno di un contesto europeo, tutelando i diritti calpestati di quanti in questi settant’anni sono stati marginalizzati, poiché prova provata di quello che non si poteva limpidamente ammettere, ossia che l’Italia aveva perduto la guerra e, in conseguenza di ciò, aveva dovuto cedere la sovranità di consistenti parti del suo territorio. Abbiamo dovuto attendere la caduta del Muro di Berlino e la sapienza di uno storico di matrice marxista – purtroppo recentemente scomparso – come Claudio Pavone per poter aprire un dibattito scientifico sull’argomento. Associazioni che, nel tempo, hanno cercato anche di aprirsi, trovando fortunatamente nuovi interlocutori in giovani che si avvicinano a questa Storia semplicemente perché curiosi, seppur non toccati direttamente da queste vicende, in cui anche i discendenti di coloro che rimasero nelle proprie case in Istria, Fiume e Dalmazia hanno il diritto di essere giudicati per quello che potranno dimostrare di fare, non per quello che fecero i loro avi.
Un Giorno del Ricordo, importante e necessario, ma che ancora non è sufficiente a sanare le ferite di tanti italiani che si sono sentiti traditi, che hanno lasciato le loro terre proprio per rimanere italiani, “optando” – mai parola fu così stonata – per rimanere quello che erano. Italiani definiti “fascisti” semplicemente perché lasciavano luoghi in cui il socialismo reale trasformava in pubblico ciò che prima era privato, dissacrava le Chiese, costringeva a parlare lingue diverse, senza valutare le effettive motivazioni di questo esodo che riguardava quasi 350.000 persone, indistintamente maschi e femmine, giovani e adulti, borghesi e operai, genitori o figli.
Esattamente settant’anni fa, in questi Palazzi, l’Assemblea Costituente alacremente lavorava ad un testo che sarebbe diventato uno dei punti di riferimento del costituzionalismo europeo – e non solo – del secondo Novecento.
Sono solamente pochi, però, a ricordarsi che quel fatidico 2 giugno 1946 – data in cui gli italiani furono chiamati a scegliere tra mantenere l’assetto istituzionale monarchico oppure abbracciare la Repubblica, oltre che ad eleggere i rappresentanti per la Costituente – tutta la XII Circoscrizione di Trieste, Istria, Fiume e Pola non poté votare, esclusa all’ultimo momento per motivi di ordine pubblico. Tanto meno ebbe seguito la richiesta di provvedere all’opzione plebiscitaria, seguendo una tradizione risorgimentale ottocentesca, sulla scia dei Quattordici Punti di Wilson, che avevano indirizzato la politica post bellica nel 1919, a conclusione del primo conflitto mondiale. Se è vero che i partiti recuperarono molti esponenti giuliani attraverso la loro candidatura in una sorta di listone nazionale, è altresì vero che mancò quel rapporto diretto tra il rappresentante e l’elettore, quell’elemento fiduciario, oltretutto in un momento così delicato, che è alla base di ogni mandato politico. E tale condizione non fece altro che aumentare quello iato tra la Storia nazionale e la Storia del confine orientale, sempre più percepita come una vicenda marginale, localistica, quasi non rientrante nel patrimonio culturale italiano, relegata all’interesse di pochi.
Quell’Assemblea Costituente, monca dell’apporto giuliano, non ebbe solamente compito di redigere la Costituzione, ma per oltre diciotto mesi si occupò di svolgere funzioni legislative e consultive, tra cui quella di dover affrontare anche il delicato tema della politica internazionale, in un costante dialogo con il Governo.
Le Forze Alleate, prima unite contro il nazi-fascismo e poi in netta antitesi con il blocco sovietico-comunista, erano altrettanto intente a tutelare i proprio interessi geopolitici e la zona dei Balcani svolgeva un ruolo peculiare: inglesi, francesi e americani cercarono di trarre maggior personale profitto durante i lavori della Conferenza di Pace parigina, tra la fine di luglio e la metà di ottobre del 1946.
L’Italia si apprestò ad affrontare quel periodo stretta da una duplice morsa: da una parte l’ostilità che necessariamente deve patire chi è uscito perdente da una guerra, che non può partecipare alle discussioni internazionali e presenzia solamente in quanto invitato, non come un interlocutore necessario. È de Gasperi stesso che, invitato ad intervenire, così inizia il suo discorso: «prendendo la parola in questo consesso mondiale, sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione».
Dall’altra un Governo di larghe intese, al cui interno era presente un forte Partito Comunista, le cui linee strategiche sovente erano antitetiche agli stessi interessi nazionali, in un’ottica internazionalistica e con uno sguardo tutto proteso verso l’Unione Sovietica.
In quegli anni De Gasperi intraprese missioni all’estero, nel tentativo di guadagnarsi i favori di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America e, contemporaneamente, cercò di condividere le strategie e le decisioni politiche con il Partito Comunista e le sinistre italiane, ancora maggioranza di governo.
Il Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 avrà un acre sapore di sconfitta, in cui l’Italia dovrà subire risoluzioni poco – rectius, per nulla – condivise e che vedevano perdere la sovranità dei territori coloniali, di alcuni piccoli comuni del confine occidentale, ma soprattutto dell’Istria, di Fiume, del carso triestino e goriziano, oltre alla creazione del Territorio Libero di Trieste (T.L.T.), sotto l’egida dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Non è un caso che le più acute grida di protesta giunsero da quegli intellettuali legati al periodo liberale italiano, i vecchi padri della Patria come Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Carlo Sforza, Benedetto Croce, preoccupati delle conseguenze di quelle decisioni, più che degli ipotetici effetti positivi della realpolitik democristiana. Quest’ultimo, soprattutto, aveva fatto sentire la sua voce, greve e dissonante, giudicando il Trattato «non solo la notificazione di quanto il vincitore chiede e prende, ma un giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronuncia di un castigo da espiare». Se la dignità e l’orgoglio dell’Italia – si chiedeva il filosofo napoletano – erano state umiliate dalle prepotenze e cupidigie internazionali, quale era il motivo per cui si sarebbe dovuto approvare un testo i cui dettami si sarebbero comunque messi in esecuzione, a prescindere dalla volontà interna?
Il prezzo maggiore del carattere punitivo comminato all’Italia intera fu pagato proprio dagli italiani del confine orientale, che dopo aver patito le violenze delle foibe e delle deportazioni (ottobre 1943 – maggio 1945, non a caso in concomitanza con due momenti fondamentali quali la data dell’Armistizio dell’8 settembre 1943 e quella della Liberazione del 25 aprile 1945), quindi con l’esilio, infine con la beffa dei beni nazionalizzati e utilizzati dallo Stato italiano per pagare il debito di guerra con Belgrado, con le promesse di un equo indennizzo la cui attesa dura tutt’ora, lasciando aperta una ferita mai rimarginata.
Di “complesse vicende” parla la Legge istitutiva del Giorno del Ricordo: molti sono gli argomenti trattati, tanti altri in questa sede non è stato possibile approfondire, alcuni per scelta non si è voluto ricordare.
La Storia d’Istria, Fiume e Dalmazia è storia secolare, di pietre che parlano italiano, di Leoni che ricordano Venezia, di un Adriatico ponte tra Ravenna e Zara, tanto che è Dante stesso a fissare – nel IX canto dell’Inferno – i confini italiani a «Pola, presso del Carnaro, ch’Italia chiude e suoi termini bagna».
Una “questione giuliana” che non abbiamo timore di raccontare a testa alta, consapevoli delle nostre ragioni, fieri del nostro passato, certi che la verità non può essere smentita da coloro che, non riuscendo a difenderla con il potere della ragione, si affidano alla ragione del potere.
Oggi, a distanza di settant’anni di distanza chiediamo rispetto da parte delle Istituzioni, adempimento degli accordi presi, consapevolezza di non essere nuovamente dimenticati.
Un’immagine letteraria, di intensa drammaticità, ci ricorda i tempi dei nostri banchi di scuola, con quel giovane Jacopo Ortis, di foscoliana memoria, per cui «il sacrificio della Patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppur ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia».

Davide Rossi, 10 febbraio 2017