Le anacronistiche nostalgie per un’Austria asburgica idealizzata

Care Amiche e cari Amici,

In questi giorni sulle pagine di alcuni quotidiani locali di Trieste, si è sviluppata una polemica inutile che prende spunto da una distorta reminiscenza del periodo asburgico. La persona presa sotto tiro all’insegna del motto “l’Austria era una cosa bella”, è uno dei presidenti delle nostre Associazioni, Manuele Braico, Presidente dell’Associazione delle Comunità Istriane, nonché Vicepresidente della FederEsuli e dell’Università Popolare di Trieste. L’Associazione delle Comunità Istriane è una diretta continuazione del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria, che per difendere l’italianità di quella terra venne ferocemente perseguitato. La FederEsuli, della quale sono Presidente, ritiene doveroso esprimersi su questa vicenda, anche se la verità appare chiara e lampante, e non ha di certo bisogno di essere da me difesa.

 

Uno degli scopi precipui delle Associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, oltre a quello di ottenere giustizia per le violenze subite ed equi indennizzi per i beni abbandonati, è testimoniare la continuità dell’italianità sulle coste dell’Adriatico orientale, al fine di chiarire quanto sia stato lacerante lo strappo rappresentato dalle stragi delle Foibe e dall’Esodo di 350.000 connazionali da quelle terre. Lascia pertanto perplessi riscontrare la tenacia con cui molti si dilunghino da alcuni mesi nel ricordo di un’Austria felix, che certo non può essere quella dell’Imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo. Lino Carpinteri e Mario Faraguna, noti ed amati autori del nostro mondo, raccontavano un universo di macchiette, ilare e scanzonato, ma non per questo il titolo di un loro libro: “L’Austria era un Paese ordinato”, deve indurre a credere alla falsità di un Regno asburgico illuminato e tollerante, il quale, al contrario, si comportò in maniera subdola e persecutoria con l’etnia italiana dell’Adriatico orientale. Basterebbe fare un minimo di mente locale sulle migliaia di persone di lingua italiana, cittadini austriaci ma ritenuti ‘politicamente malfide’, deportate nei vari campi di concentramento disseminati tra Austria ed Ungheria allo scoppio della Prima guerra mondiale. Ma ancor prima, ed in maniera ancor più evidente, basterebbe rileggere la parte di verbale del Consiglio della Corona del 12 novembre 1866 per capire l’intolleranza, la discriminazione, l’emarginazione, nonché la causa dell’odio instillato tra slavi ed italiani a cavallo del ‘900, le cui conseguenze, purtroppo, sono ben note a tutta la gente dell’Esodo giuliano-dalmata: «Sua Maestà [l’Imperatore Francesco Giuseppe] ha espresso il preciso ordine che si agisca in modo deciso contro l’influenza degli elementi italiani ancora presenti in alcune regioni della Corona e, occupando opportunamente i posti degli impiegati pubblici, giudiziari, dei maestri come pure con l’influenza della stampa, si operi nel Tirolo del Sud, in Dalmazia e sul Litorale per la germanizzazione e la slavizzazione di detti territori a seconda delle circostanze, con energia e senza riguardo alcuno» Ed infatti, l’energia e la mancanza di riguardo generarono profughi di lingua italiana dalla Dalmazia già prima della Prima guerra mondiale e lo spopolamento, in pochi anni, di località storicamente abitante da una pacifica popolazione autoctona. Non vi è dubbio sui meriti dell’assolutismo illuminato dell’Imperatrice austriaca Maria Teresa, che ha dato lustro e sviluppo economico ai domini della Casa d’Austria, oggi rappresentata dal Presidente dell’Unione degli Istriani, ma ci permettiamo di uscire dalla vuote ed anacronistiche polemiche contro cui Massimiliano Lacota si lancia per ‘acculturare’ Manuele Braico, apprezzato e da poco confermato Presidente dell’Associazione delle Comunità Istriane, nonché Vicepresidente della FederEsuli e dell’Università Popolare di Trieste. Vogliamo, invece, ricordare le riflessioni di un illustre istriano coevo di Maria Teresa, vale a dire lo scrittore, storico ed economista Gian Rinaldo Carli. Funzionario imperiale di carriera ed estimatore del riformismo teresiano, seppe distinguere questioni nazionali ed economiche: nell’articolo “La patria degli Italiani”, apparso sulla prestigiosa rivista illuminista milanese “Il Caffè” nel 1765, denunciò, infatti, l’asservimento, ottenuto sovente tramite prebende economiche, di tanti connazionali nei confronti degli stranieri che spadroneggiavano sugli Stati e sui territori dell’Italia preunitaria. Nei volumi “Delle antichità italiche” (1788) l’illustre capodistriano avrebbe poi fornito una dotta storia d’Italia, nella quale comprendeva anche Istria e Dalmazia, soffermandosi sui momenti più brillanti della storia italiana e non comparivano certo lusinghieri riferimenti alle dominazioni straniere che tenevano divisa la penisola italica e rallentavano il percorso di formazione di una coscienza nazionale. Bene ha fatto, quindi, Braico, in guisa di rappresentante di un’Associazione diretta continuazione del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria, che dell’italianità istriana fu l’ultimo baluardo, a spendersi contro queste prese di posizione a favore di un’entità che non esiste più, l’Austria di Maria Teresa e di Francesco Giuseppe. Un‘entità che inghiottì la Repubblica di Venezia, con il beneplacito delle potenze straniere, all’indomani di Campoformio ed a detrimento di una cultura, la quale trova giusta espressione nelle attività dell’associazionismo giuliano-dalmata. Sul piano storico, tale associazionismo deve oggi impegnarsi per ribadire l’appartenenza culturale, linguistica e storica di Istria, Fiume e Dalmazia all’Italia fin dai secoli più remoti. Le presenze straniere che si sono succedute possono anche avere apportato contributi positivi allo sviluppo locale, ma ben più gravi dobbiamo considerare i danni apportati alla causa dell’unità nazionale, per la quale già nel XVIII secolo vi erano intellettuali istriani pronti ad impegnarsi, con l’obiettivo di uno Stato che fosse anche luogo di riforme economiche e sociali a beneficio dei propri cittadini e non degli appetiti espansionistici di sovrani stranieri, che hanno da sempre visto nell’Italia una terra una terra di conquista.

T. Ballarin, Roma, 4 luglio 2017.