Lucio Toth – “Demoghela” Il 1914 degli austro-italiani

Scritto da Lucio Toth
martedì 31 dicembre 2013

“DEMOGHELA” IL 1914 DEGLI AUSTRO-ITALIANI
Il 28 giugno del 1914 per noi, italiani dell’impero austro-ungarico, fu un momento di grande sconcerto e di drammatiche scelte. L’attentato di Sarajevo, in cui persero la vita l’Arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, segnò la fine di un equilibro politico interno all’impero e nello scacchiere europeo, instabile e per noi pericoloso.
Un senso di angoscia invase le nostre città adriatiche perché significava la chiamata alle proprie responsabilità di tutta la classe dirigente e di tutto il popolo di quelle che venivano chiamate a Vienna “province austro-italiane” e a Roma “Terre irredente”. Almeno per quegli italiani (socialisti, liberali, radicali, nazionalisti) che ci credevano. Per il resto dell’opinione pubblica nazionale quelle terre e tutto l’irredentismo erano soltanto una rottura di scatole. Un “gran cancan” lo aveva definito fin dall’inizio Agostino Depretis.
Da un lato quell’equilibrio europeo ci garantiva quel minimo di rispetto per la nostra identità nazionale che il nazionalismo ruggente di croati e sloveni ci aveva ancora lasciato. La minaccia di una guerra austro-serba o addirittura di una conflagrazione mondiale spostava definitivamente l’atteggiamento del governo di Vienna nei confronti della nostra componente nazionale del loro impero pluri-etnico. Diventavamo tutti sospetti e potenziali traditori. Nel migliore dei casi ostaggi da usare nelle trattative internazionali.
Dall’altro l’assassinio dell’arciduca, fervente sostenitore del “Trialismo” tedesco-magiaro-slavo – che voleva estendere ai territori imperiali di lingua slava la riforma costituzionale del 1867, spezzando l’accordo esclusivo raggiunto tra le due etnie dominanti austriaca e ungherese – poteva tornarci favorevole perché allontanava quella prospettiva, per noi catastrofica.
La spartizione tedesco-magiara del 67 aveva posto la minoranza italiana del Trentino, del Litorale Austriaco e della Dalmazia su un livello di parità formale con le componenti slave più numerose, e soprattutto con quelle croate e slovene, che premevano sulle località della costa per completarne la snazionalizzazione e cancellare ogni presenza e ogni potere economico e politico degli austro-italiani. Il Trialismo ci avrebbe posto in una condizione definitiva di irrilevanza e di marginalità, dando via libera al processo di slavizzazione della regione adriatica, dove ancora, da Gorizia a Zara gli italiani resistevano nelle pubbliche amministrazioni e negli enti locali. A tutte le città e i comuni italiani, fino a Grado e a Cormons (comprese le città maggiori come Trieste e Fiume), sarebbe toccata la stessa sorte di Spalato, di Sebenico, di Ragusa/Dubrovnik e di Cattaro, passate gradualmente al partito croato negli ultimi decenni dell’Ottocento.
Chi guardi all’estate del 1914, al diabolico automatismo di impegni formali che trascinarono nella voragine uno stato dopo l’altro, come i ciechi della parabola, si accorge di quanto sia facile avvicinarsi all’orlo del baratro e sprofondarvi, senza nemmeno volerlo con piena consapevolezza.
Né politici né militari seppero prevedere e fermare gli immani sacrifici di vite umane sull’altare della sfida di potenza, che era all’origine delle tensioni internazionali da un estremo all’altro del pianeta.
Giappone, Russia, Germania, Gran Bretagna, gli stessi Stati Uniti – che pure respingevano in via di principio l’imperialismo e il colonialismo europei – erano in perpetua contesa e competizione sui mercati e nell’impossessamento di territori, di arcipelaghi, di punti-franchi che assicurassero risorse minerarie o approvvigionamento di materie prime, o anche cunei di penetrazione strategica sul piano militare e commerciale.
Da Macao ad Aden, da Panama a Suez, a Hong Kong, era tutto un inseguirsi affannoso e vorace per impadronirsi di strumenti di pressione economica e di intimidazione militare. Né vi si sottrassero gli Stati Uniti, malgrado gli alti principi morali proclamati. Le guerre per Cuba e le Filippine e l’occupazione di Portorico o di remoti arcipelaghi del Pacifico, non si allontanava nella sostanza dalle strategie predatorie di Francia, Spagna, Inghilterra, Germania e Giappone o dalla difesa accanita di posizioni acquisite di altri paesi considerati “virtuosi” come Olanda, Portogallo o Danimarca. La stessa sete di dominio guidava gli uni e gli altri.
E l’Italietta di Crispi e di Giolitti non volle essere da meno, mandando cannoniere e impiantando agenzie commerciali ad Assab e a Massaua, a Tientsin. Arrivando a mostrare le unghie in Libia o in Dodecaneso per riscattare i disastri di Dogali e di Adua.
Irredentismi basati su principi di nazionalità, più o meno fondati, come le aspirazioni francesi a riprendersi l’Alsazia-Lorena o quelle greche, bulgare e serbe sui vilayet europei e anatolici dell’impero ottomano, si confondevano con spinte decisamente imperialiste che avevano motivazioni esclusivamente economiche.
Giustamente gli stessi contemporanei si rendevano conto che quell’equilibrio poggiava su un barile di dinamite, che qualsiasi scintilla poteva far esplodere.
Era una pace ben fragile quella che l’attentato di Sarajevo mandò in frantumi.
E la scintilla si accese proprio all’interno della compagine statale di cui facevano parte gli austro-italiani, in quel turbolento mosaico etnico della penisola balcanica; a poche centinaia o decine di chilometri dalle coste adriatiche ove vivevano gli insediamenti storici italiani, occasione anch’essi – come quelli slavi nella Rumelia e nella Macedonia settentrionale o quelli greci e armeni in Asia Minore – di rivendicazioni territoriali da parte di Roma, di Sofia, di Belgrado, di Atene.
L’annuncio di bufere imminenti fu quindi ben avvertito dagli italiani dell’impero asburgico, spaventati dalla politica incerta e altalenante di Roma, che avrebbe potuto proteggerli o abbandonarli a se stessi, o servirsene come esca psicologica e morale per entrare nella fornace della guerra.
Se non si allarga lo sguardo a una visuale così ampia tutta la vicenda che preparò e condusse l’Italia alla Grande Guerra rimane incomprensibile. Non furono certo gli scritti di Timeus, di Salvemini, di Luigi Barzini o di Colautti, e nemmeno le odi patriottiche di Carducci e di D’Annunzio a trascinare l’Italia nella voragine del conflitto. Essi furono soltanto le manifestazioni sintomatiche di un terremoto che sconvolgeva l’Europa facendo saltare le sue faglie storiche più sensibili, là dove culture e tradizioni diverse di intersecavano in un groviglio inestricabile.
La tentazione di sciogliere quel groviglio con il taglio gordiano della forza militare e della guerra universale si annidava in tutta la cultura, tanto idealista quanto positivista, dell’Europa di un secolo fa, allevata a teneri sentimenti di amor di patria, vista come più bella delle altre, e insieme a pulsioni vitalistiche di auto-affermazione di sé, nichiliste e distruttrici, che vedevano in guerre e rivoluzioni le “pulizie” della storia.
Con il senno di poi si possono immaginare anche altre vie per sottrarsi a quella logica di competizione tra potenze grandi e piccole. Ma non era facile farlo nel contesto di quel momento concitato, nel frastuono assordante delle artiglierie. Né serve molto accusare le classi dirigenti di tutti i paesi di non aver saputo prevedere le dimensioni della tragedia alla luce dei precedenti della guerra russo-giapponese e delle guerre balcaniche del 1912-1913. A distanza di un secolo si possono guardare le cose con una lucidità che era preclusa agli europei di quei tempi, illusi dal mito del progresso illimitato. La retorica dei cannoni era sorella della retorica delle ciminiere e delle macchine a vapore.
Politici e militari non seppero o non vollero vedere i costi cui si andava incontro in termini di vite umane e di distruzioni materiali. Grandi politici e valenti generali finirono per apparire pallide comparse di un copione scritto da mani ignote. Salandra e Sonnino, Foch e Hindenburg, Andrassy e Cadorna. Studiavano chini e pensosi su enormi mappe geografiche e contorti codicilli diplomatici per cercare di tirarsi fuori dalla situazione in cui si era precipitati con il minor danno per sé e per le istituzioni che rappresentavano.
Che fossero ben pochi a vedere la realtà è dimostrato dall’entusiasmo quasi infantile con il quale i militari di tutti gli eserciti si avviavano alle linee dei fronti. Come se andassero a una festa fra il tripudio di fiori e di bandiere delle folle che li salutavano nei porti e nelle stazioni ferroviarie. Una percentuale altissima di quei partenti non sarebbe mai tornata e di essi si sarebbe perduto anche il nome.
Ben diversa fu la reazione nelle città dell’impero asburgico abitate da italiani. Angoscia e preoccupazione per le scelte che sarebbero stati costretti a fare. Obbedire alle leggi con quella disciplina e senso del dovere cui erano stati e si erano educati oppure disobbedire per restare fedeli alla loro identità nazionale. Passare dall’altra parte, con tutti i rischi che ne derivavano, o rifugiarsi in una resistenza passiva, una specie di atarassia e di indifferenza politica che permettesse di salvare la pelle e non finire nelle fosse comuni delle pianure ucraine e nelle foreste siberiane.
Ma più ancora delle analisi argomentate valgono a rendere l’atmosfera dell’epoca le canzoni popolari che giravano tra la gente (valzer, inni, marcette, serenate, barcarole) che si richiamavano sempre a un sentimento di appartenenza culturale all’Italia e alla difesa della nostra lingua e dei nostri dialetti. Si pensi al “Sì” degli zaratini, al “Cantime, Rita!” dei fiumani, alle bitinade rovignesi, all’”Inno all’Istria”. Tutte armonie sospese tra la tradizione marinara istro-veneta e le ariette in auge durante la “Belle Epoque”. Un’età a modo suo felice lungo le coste adriatiche dell’impero asburgico, per la buona amministrazione e le mode turistiche che attiravano i “villeggianti” della Mitteleuropa da Grado a Portorose, da Abbazia a Ragusa.
L’esodo a singhiozzo degli intellettuali, perseguitati dalla polizia imperiale o comunque allontanati dai pubblici uffici e dalla carta stampata per le loro idee irredentiste, non bastava a guastare il buon umore, il caratteristico “morbin” scanzonato di quella società emancipata e multiculturale.
L’agosto del ‘14 avrebbe cambiato tutto.
Ma non minor valore evocativo hanno le canzoncine che giravano per le caserme e gli arsenali militari dell’Adriatico orientale
“Imperator de l’Austria e re de l’Ungheria
Saver che parto via vestìo da militar…
Gnanca el mus no la vol portar
la beretta, la beretta.
Gnanca el mus no la vol portar la beretta militar!”
Era una delle canzonette – scherzose e di un’ironia dissacratrice – cantate dai militari austro-ungarici di nazionalità italiana chiamati alle armi nell’Imperial-Regio Esercito e nella Imperial Regia-Marina austriaci dei tempi di Francesco Giuseppe.
Altra canzoncina famosa da quelle parti nel 1914 era il cosiddetto “Demoghèla”, come la chiamavano i crucchi spostando e storpiando l’accento. Veniva dal motto istro-veneto e triestino “Dèmoghela, fioi!” In buon toscano: “Filiamocela, ragazzi!” O in napoletano:”Jammoncenne, guagliò!”. Tanto per farci capire da tutti gli italiani ex-regnicoli.
Si era talmente diffusa questa canzoncina – un po’ disfattista – nelle file dell’esercito austro-ungarico che un intero reggimento di fanteria reclutato fra Trieste e l’Istria ne vantava il nome: il “reggimento del Demoghèla”. Insomma indicava la scarsa propensione alla battaglia dei coscritti e dei riservisti del litorale austriaco. Non si capiva bene se per un radicato pregiudizio di codardia bellica attribuita alla “razza” italiana in genere o per patriottismo passivo capovolto. Ossia per la segreta simpatia verso la causa italiana. L’essere sempre “capovolti” è una caratteristica della nostra gente di confine, che per questo si è meritata due “ribaltoni”, anzi tre: nel 1918, nel 1943, nel 1991. Patrie da rinnegare o alle quali offrire la vita.
Sta di fatto che questo reggimento venne mandato in Galizia a combattere i russi, come tutti gli altri reparti di nazionalità italiana. Altri, specie gli italiani della Dalmazia, venivano spediti sul fronte serbo-bosniaco, forse contando su una loro presunta dimestichezza con le lingue slave. Ma il risultato non era diverso. Perché venivano comunque sospettati di “intelligenza con il nemico” o di inclinazione alla diserzione, essendo la Serbia alleata dell’Intesa.
Di questa disposizione d’animo – diciamo così un po’ distaccata se non ostile all’aquila bicipite – c’è ampia traccia nella letteratura italiana e straniera.
Alexander Lernet-Holenia nel romanzo “Lo stendardo” descrive l’ansia di triestini e istriani di abbandonare i reparti austriaci, in ritirata dal fronte macedone, per tornare al più presto tutti a casa.
Si richiamavano in dialetto veneto da un binario all’altro delle stazioni per stare insieme e attraversare incolumi il lungo tragitto verso l’Alto Adriatico.
Miroslav Krleza, poeta e narratore croato, prigioniero “austriaco” dei russi, racconta ne “Il Dio Marte croato” l’entusiasmo dei commilitoni austro-italiani alla notizia dell’armistizio di Villa Giusti, che inneggiavano alla caduta dell’Austria in fondo alla baracca di un’infermeria.
Ovviamente risuonano di questi echi i romanzi dei diretti interessati. Un Quarantotti Gambini
quando, ne “La rosa rossa”, rievoca le divisioni tra austriacanti e irredentisti nella sua Capodistria. Il giubilo sfrenato dei secondi, le paure dei primi all’arrivo dell’armata redentrice. Più drammatico il racconto di Franco Vegliani “La frontiera”, sul giovane ufficiale di carriera austriaco di nazionalità italiana, nativo di Veglia in Dalmazia, che in un lampo di autocoscienza nazionale tenta la diserzione sul fronte russo, per passare al nemico, finendo sotto il fuoco di una mitragliera bosniaca che gli spara alle spalle.
Di tali racconti sono ricche le memorie dei giuliano-dalmati, i cui parenti si trovarono in situazioni analoghe. Le loro fotografie incorniciate sui ripiani del soggiorno ne rendono testimonianza: alcuni in uniforme austriaca, altri in uniforme italiana.
E come non ricordare gli oltre 80.000 profughi dalle terre “irredente” rifugiatisi in territorio italiano? Languirono per anni in campi-profughi, malvisti e maltrattati. Né le autorità italiane sapevano distinguere tra un “evacuato” da Monfalcone o da Gradisca, perché in piena zona di operazioni, e un rifugiato dall’Istria e dalla Dalmazia, zone lontane dal fronte italiano, che abbandonava il proprio paese per sottrarsi alla leva austriaca o semplicemente alle misure restrittive adottate dalle autorità austro-ungariche.
Già! Perché circa 100.000 trentini, istriani, triestini, fiumani e dalmati di nazionalità italiana furono internati in lager dell’hinterland dell’impero (Stiria, Boemia, Ungheria) perché sospettati di possibile connivenza con il “nemico” italiano.
Povera gente incompresa, gli uni e gli altri, da entrambe le parti, accusati di disfattismo, tradimento, sentimenti anti-patriottici.
La relazione parlamentare d’inchiesta su queste vicende e i rapporti delle questure sono più che eloquenti per dimostrare l’impreparazione della burocrazia italiana a gestire queste situazioni e l’ossessione maniacale che rifugiati ed internati fossero spie o infiltrati austriaci, ossessione prolungata anche dopo la fine del conflitto.
Solo una medaglia alla memoria sul campo o l’impiccagione ordinata dalle corti marziali austriache in caso di cattura valevano a dimostrare la buona fede di questi strani italiani, molti con cognomi stranieri. Bastava una desinenza in “ch” o in “k” per far inarcare le sopracciglia ai funzionari.
Questo il complicato e tormentato destino che attendeva gli austro-italiani dopo il 28 giugno del
1914. I più previdenti se ne andarono prima del maggio 1915. Gli altri, i “rimasti” di allora, restarono impaniati nel collasso dell’impero asburgico.