Terra irredenta, terra incognita

La Venezia Giulia è stata nell’immaginario nazionale la terra irredenta per antonomasia. Pochi però sapevano dove si trovasse Trieste e che cosa comprendesse quella mitica regione. A scoprirlo furono i milioni di italiani che vi affrontarono la guerra nelle trincee del Carso o sulle vette delle Alpi Giulie. Qui convivevano popoli diversi che vissero il primo conflitto mondiale con animo contrastante, specie quando l’Italia decise di parteciparvi. La multietnica società giuliana era stata coinvolta sin dal 1914: la mobilitazione di massa vide partire decine di migliaia di uomini – italiani, sloveni e croati – nelle file dell’esercito dell’Austria-Ungheria. Nelle città della regione donne, bambini e anziani dovevano misurarsi con le conseguenze della guerra totale. Il libro offre uno sguardo d’insieme sulle vicende belliche della regione, sul coinvolgimento di uomini e donne nel conflitto, ma soprattutto sul modo in cui queste e il territorio vennero descritti. Memorie, articoli di giornale, pagine di diario, canti, testi di riflessione politica sono utilizzati per raccontare un momento chiave della storia di quest’area multiculturale. Ben lungi da concluderne le travagliate vicende, le conseguenze della Grande Guerra furono alla base delle successive tragedie che con la Seconda guerra mondiale l’avrebbero nuovamente investita.

Fabio Todero, Terra irredenta, terra incognita. L’ora delle armi al confine orientale d’Italia 1914-1918, Laterza, Roma-Bari 2023, 264 pp.

L’autore: Fabio Todero, dottore di ricerca in Italianistica, è ricercatore dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia. Si occupa da tempo della Grande Guerra e della sua memoria, di storia della Venezia Giulia e, in genere, di storia del confine orientale. Organizzatore di convegni, curatore di mostre, progetti scientifici e volumi, ha pubblicato tra l’altro: Pagine della Grande guerra. Scrittori in grigioverde (Mursia 1999); Le metamorfosi della memoria. La Grande guerra tra modernità e tradizione (Del Bianco 2002); Morire per la Patria. I volontari del Litorale austriaco nella Grande guerra (Gaspari 2005); Di un’altra Italia: miti, riti e simboli dell’impresa fiumana (con L.G. Manenti, Gaspari 2021).

INTRODUZIONE

“Terra incognita”, “terres inconnues”, “Parts Unknown” sono i termini che nella cartografia antica indicavano i territori ancora inesplorati e che la fantasia poteva popolare a proprio piacimento. Non occorre andar sempre lontano per imbattersi in territori così, per non dire che il concetto di “lontano” varia con il trascorrere del tempo.

Se lo straordinario sviluppo delle comunicazioni ferroviarie che l’Europa conosce a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento accorcia enormemente le distanze, per molti il treno continua ad essere un mostro fumante, affascinante e pauroso che attraversa pianure e valica montagne, e salirci costituisce un avvenimento. Per tanti italiani, in quell’epoca, l’unica occasione di viaggio di un’intera esistenza è la partenza per il servizio militare, da prestare rigorosamente in località lontane dal proprio luogo di nascita. Figurarsi allora che cosa può voler dire partire per la guerra, oltrepassare un confine, penetrare in una regione sconosciuta il cui solo riferimento vagamente noto è Trieste, che con Trento forma un binomio destinato a enorme fortuna. Le decine di migliaia di italiani richiamati alle armi partono verso la frontiera orientale ignorando, per lo più, quale sia esattamente la loro destinazione. Di certo ignorano che si tratta di un territorio dai molti nomi, declinati in lingue e figli di culture diverse, che lo percepiscono o guardano ad esso come al “proprio” spazio, il luogo dove si è sempre vissuti. Litorale austriaco, Venezia Giulia e Primorska/Primorje sono i nomi – nati in tempi e con intenti differenti – con cui principalmente viene designato lo stesso spazio e ne raccontano la pluralità e la complessità.

Litorale austriaco è la denominazione che nel 1849 le autorità asburgiche assegnano alla provincia imperiale comprendente la Principesca contea di Gorizia e Gradisca, la Città “immediata” di Trieste – così chiamata per i privilegi di cui godeva –, che ne costituisce il centro principale, e il Margraviato d’Istria. Il termine non fa che registrarne burocraticamente l’appartenenza ai domini degli Asburgo. Quattordici anni dopo, nel 1863, l’autorevole glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli conia per la medesima regione il termine “Venezia Giulia”. Il nome intende sottolinearne la continuità storica, linguistica e geografica con il Veneto, prossimo all’annessione, e il Trentino; altri ancora, in ambito italiano, lo utilizzeranno.

La parola slovena Primorska – che significa Litorale – fa riferimento al concetto di “territorio etnico”, secondo il quale la presenza di comunità slovene nell’area ne fa un territorio sloveno tout court: un ragionamento condiviso anche dalla tradizione etnografica croata e basato sui concetti di “sangue e terra”. Si tratta di una consuetudine che si afferma in occasione della Grande Guerra e che indica «tutto il territorio ad ovest del confine di Rapallo popolato dagli sloveni, assieme alla Notranjska (Carniola interiore), la Slavia Veneta, la Val Canale, accanto alle provincie di Gorizia, Trieste e parte delle provincie di Pola e di Fiume». Da parte jugoslava la formula “Venezia Giulia” verrà tradotta con “Julijska Krajina” (dove il termine krajina significa regione di frontiera), a sua volta resa in francese, in ambito diplomatico, con “Marche Julienne”, omettendo sempre il riferimento a Venezia.

Come in altre realtà dell’Impero, il progredire e il consolidarsi dei processi di nazionalizzazione sono finiti per sfociare in “conflitti nazionalisti” anche tra i principali gruppi linguistici di quest’area – italiani, sloveni e croati –, in risposta alle nuove dimensioni assunte dal dibattito politico.

La lotta, sostenuta dalle loro rispettive élite culturali, è legata per lo più – anche se non unicamente – al desiderio di vedersi riconosciuti un maggior numero di diritti, di esercitare l’egemonia politica sull’amministrazione di quello spazio. Intorno al suo destino nascono ambizioni che finiscono con l’essere inconciliabili. Tutti gli irredentisti italiani guardano oltreconfine all’Italia, patria d’elezione: uno Stato giovane che affonda le sue radici in un passato glorioso di storia, arte e cultura. Non sono però un gruppo monolitico, ma esprimono al proprio interno posizioni diverse. Alcuni pensano all’Italia come alla meta cui tendere: la comunità di cui si sentono parte e alla quale ambiscono unirsi, anche sul piano politico. Altri, repubblicani e mazziniani, sognano la dissoluzione dell’Austria-Ungheria e ritengono di poter saldare le rivendicazioni sociali a quelle nazionali. Altri ancora, una componente che col passare del tempo finisce per egemonizzare il movimento, sono nazionalisti e vedono in questa terra il trampolino di lancio per un’Italia desiderosa di affermarsi come grande potenza, pensando soprattutto al dominio sull’intera area adriatica. Ciò significa però non tener conto della presenza delle altre comunità, percepite come ostacoli da abbattere per realizzare il proprio destino. Un ultimo gruppo si limita a rivendicare un riconoscimento pieno dei diritti linguistici e della propria specificità culturale: ma è una minoranza e comunque la guerra vanifica, quando non trasforma, queste più moderate richieste.

L’irredentismo non esaurisce però la rappresentanza politica italiana: i liberal-nazionali hanno infatti obiettivi meno grandiosi e pensano a conseguire il controllo di quello che ritengono essere il proprio territorio per ottenere maggiori tutele per il proprio gruppo di riferimento. La scuola, la toponomastica, la geografia diventano altrettanti campi di battaglia per le classi dirigenti delle tre comunità, anche se al loro fianco si ritrovano spesso i più scalmanati. Si sviluppa inoltre un importante movimento socialista che rifiuta, specie tra gli italiani, ogni intromissione del problema nazionale.

Anche tra sloveni e croati c’è chi pensa a una nuova patria per tutti gli slavi del Sud: progettano così la nascita di un’unione politica tra croati, serbi e sloveni e il loro distacco dall’Austria-Ungheria. Queste istanze, sancite dalla risoluzione di Fiume (1905), sono il frutto di un movimento irredentista parallelo a quello italiano.

Tutti e tre questi gruppi, italiani, sloveni e croati del Litorale, sono parte di una più ampia compagine multinazionale che affonda le proprie radici nel Medioevo e alla quale queste terre sono legate da secoli: l’Impero d’Austria-Ungheria. Trieste, ad esempio, è entrata a far parte dei “domini ereditari” di Casa d’Austria nel 1382 e deve le sue notevoli fortune economiche e il suo rapido sviluppo all’intuizione di un Asburgo, l’imperatore Carlo VI, proprio come Fiume, che dipende però dalla corona d’Ungheria. Alla vigilia del conflitto, questo gigante che «si estendeva dall’Adriatico alla frontiera russa e dalla Sassonia ai Balcani» per 677.000 kmq, soffre sotto i colpi «della questione della nazionalità, quali l’irredentismo rumeno e italiano, l’egemonia ungherese in rapporto alle minoranze slave, le aspirazioni degli slavi del sud e il contenzioso germano-ceco». L’alternativa per queste comunità è quella di ritagliarsi margini di maggior autonomia – come vagheggiato dal cosiddetto irredentismo culturale o dalla tradizione austroslavista – e di vedersi riconosciuto un maggior numero di diritti, senza per questo ambire alla dissoluzione della pluricentenaria monarchia. In linea con queste istanze è il movimento operaio: l’austromarxismo pensa infatti a una grande confederazione di popoli, ciascuno dei quali avrebbe potuto godere di larga autonomia pur conservando il tedesco come lingua ufficiale; «su tali basi i socialdemocratici austriaci potevano apparire potenziali alleati degli Asburgo, a condizione che questi perseguissero una politica d’apertura che superasse certi blocchi imposti dai liberali tedeschi».

L’Impero rappresenta comunque una delle maggiori potenze industriali a livello mondiale, la quarta del continente europeo, grazie allo sviluppo economico cui è stato dato impulso dalla seconda metà dell’Ottocento. Sul piano militare è invece un gigante dai piedi d’argilla e il suo esercito è lo specchio delle molte contraddizioni della patria che avrebbe dovuto difendere. Il capo di stato maggiore, Franz Conrad von Hötzendorf, «cercò di far recuperare all’esercito austriaco il tempo perduto sotto il suo predecessore, il generale Beck; modernizzò l’armamento e riorganizzò l’artiglieria, ma entrò altresì in conflitto con i liberali tedeschi, gli slavi, gli ungheresi e con lo stesso imperatore». Ma il corpo di quell’esercito è minato dalle pulsioni nazionali: perfino il patriottico padre di Franz Ferdinand von Trotta, protagonista della Marcia di Radetzky di Joseph Roth, pensa a «riformare l’impero e salvare gli Asburgo» e sogna «una monarchia degli austriaci, degli ungheresi e degli slavi». Ciò non di meno, comandato ciascuno nella sua lingua, risparmiati dalla ferrea disciplina dell’esercito del kaiser, piuttosto tranquilli, ben nutriti, colmi delle tradizioni e degli onori che risalivano all’assedio turco di Vienna nel XVII secolo e anche oltre, i reggimenti dell’esercito imperiale – fucilieri tirolesi, ussari ungheresi, cavalleria leggera della Dalmazia – costituivano il caleidoscopio delle diversità dell’impero e per i tre anni di vita di un giovane coscritto rappresentavano una divertente evasione dalla routine del lavoro nei campi o nelle officine.

Prima del periodo di pace che, con l’eccezione delle guerre balcaniche, regala all’Europa l’atmosfera della Belle Époque, l’esercito degli Asburgo non ha dato grandi prove di sé. Quando non ci hanno pensato i militari, sono stati i diplomatici ad assestare i colpi mortali all’Impero: ad esempio, se nel 1866 le armate di terra e di mare sconfiggono quelle del giovane Regno sabaudo, la concomitante disfatta con la Prussia comporta significative rinunce territoriali e la nascita della Duplice monarchia, con il riconoscimento dell’autonomia dello Stato ungherese sotto l’egida dell’imperatore.

Solo tre anni prima di quel fatale 1866, quando il confine orientale italiano raggiunge la linea dello Iudrio con l’annessione del Veneto e del Friuli occidentale, il già ricordato professor Ascoli ha pensato alle sue tre “Venezie”, accomunate da lingua, tradizioni, geografia e cultura e ad una di esse, che coincide con la provincia del Litorale austriaco, attribuisce il nome “Venezia Giulia”. In Italia, come vedremo, non sono molti ad accorgersi di questa proposta, che segna la nascita di uno spazio geografico e nazionale ad un tempo. Il binomio, però, dopo un percorso abbastanza clandestino, ritornerà prepotentemente di moda nei mesi che annunciano la guerra, per affermarsi definitivamente a conflitto concluso. È assunto di questo libro che nel maggio del 1915 la stragrande maggioranza degli italiani siano andati alla guerra per e in uno spazio “ignoto”, dall’incerta collocazione geografica. Il che non è affatto sorprendente: a circa 160 anni dalla nascita del termine “Venezia Giulia”, parte integrante della denominazione della regione autonoma Friuli Venezia Giulia nata nel 1963, si fa fatica a capire che cosa esso indichi; perfino la stampa più autorevole tende a sintetizzare in Friuli il nome della regione, ignorando quanto le due realtà che compongono il territorio siano diverse per storia e caratteristiche. Non si tratta di una sciocca controversia campanilistica: ma è davvero un paradosso che di queste terre per le quali hanno perduto la vita 650.000 italiani, benché buona parte siano andate perdute in seguito alla Seconda guerra mondiale, venga ignorata la storia quando non perfino l’esistenza. Questo a dispetto anche degli sforzi sostenuti da innumerevoli realtà culturali e associative – dalle associazioni degli esuli giuliani, fiumani e dalmati agli Istituti di storia della Resistenza – per promuovere la conoscenza della storia di quest’area, mille e mille volte citata in occasione del Giorno del ricordo ma non di rado confusa o malamente intesa.

Su questo territorio, a partire dal 1914 si abbatte la furia della guerra totale e, quando nel 1915 l’Italia decide l’intervento, nuovi nomi entrano a far parte dell’immaginario collettivo italiano: sono nomi che evocano mete sospirate – Trieste! –, battaglie grandiose che si svolgono in luoghi dipinti dai corrispondenti di guerra non senza fantasia come il Carso, o in toni epici, come il Monte Nero. La “Venezia Giulia” così si sostanzia, diviene carne viva del paese non foss’altro perché vi lasciano la vita decine di migliaia di giovani e meno giovani italiani.

Altri, nel silenzio o nel disprezzo di alcuni – come i nazionalisti – sono invece partiti un anno prima per “terre lontane” ed altrettanto ignote, come lontana è definita Gorizia in un noto canto popolare: sono gli austroitaliani del Litorale che, insieme ai loro corregionali sloveni e croati, sono stati mandati a combattere in Galizia, in Serbia o sui Carpazi. In terre ancora più lontane e sconosciute si ritroveranno quanti di essi cadranno prigionieri dei russi.

Questo libro intende dunque riflettere e far riflettere sul destino di un territorio che della Grande Guerra italiana costituì l’epicentro ma anche l’oggetto di una grande costruzione mitopoietica: un’area che le cronache del tempo di guerra e la successiva produzione memorialistica hanno cercato di raccontare in termini ora epici – ciò che costituiva la sostanza del giornalismo di guerra, ma anche di parte della produzione letteraria che ne scaturì –, ora, ma più raramente, realistici. Nel far questo, pur utilizzando precipuamente il termine “Venezia Giulia” e privilegiando per ovvie ragioni il punto di vista italiano – il che non significa certo condividerne ogni sua articolazione, a partire dal nazionalismo –, si cercherà di dar conto anche delle traversie di quelle componenti che vedevano nel termine stesso soltanto un modo per cancellare la loro identità. Se si proverà a comprendere le ragioni di tutti, per forza di cose, per cultura e formazione, la Grande Guerra di cui si argomenterà e la Venezia Giulia di cui si racconterà saranno soprattutto quelle vissute da chi vi combatté in grigioverde, o quelle narrate da chi intendeva descrivere all’opinione pubblica italiana gli avvenimenti che si svolsero in tempo di guerra: quando, come si sa, l’informazione risponde soprattutto alle esigenze della propaganda e la realtà cede il passo al mito.