“De Toto Orbe”. Pietro Coppo, 1520

5 La tavola 10 del “De Toto Orbe”. Pietro Coppo, 1520
La carta manoscritta che compone la tav. 10 dell’opera più importante di Pietro Coppo,geografo e cartografo, intagliatore e stampatore, il De Toto Orbe, si conserva nella Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna ed è datata con molta probabilità 1520. Costituisce l’ultima tra le carte generali d’Italia, diverse per contenuto, che il grande cartografo, veneziano di nascita, ma istriano d’elezione poiché vivrà gran parte della sua vita a Isola d’Istria, ci ha lasciato nella suddetta opera. Essa è dedicata alle regioni classiche dell’area danubiana, poiché comprende soltanto i contorni di parte della penisola. La raffigurazione, che misura mm 355×385, non è inserita in nessuna cornice e il disegno cartografico è delimitato da un sottile rigo privo di graduazione e della scala. Non compare alcun cartiglio che indichi il nome del’autore e l’anno dell’incisione, ma di certo non vi sono dubbi sulla paternità dell’opera. All’esterno del rigo marginale si trovano otto tra simboli e iniziali di punti cardinali e intermedi che permettono di stabilire l’orientazione della carta che è, infatti, quella consueta con il nord-est in alto, caratteristica che provoca ancora una volta la deformazione della penisola italiana, soprattutto della costa ligure e un rimpicciolimento del bacino dell’Adriatico (Errera, 1933-34, pp. 25-47; Almagià, 1951, pp. 48-50).

Cartina

Tabella Toponimi

 

La forma, l’orientazione e gli elementi fondamentali dell’orografia, dell’idrografia e della collocazione delle sedi umane sono simili per tipologia alle altre rappresentazioni cartografiche del cimelio bolognese. Infatti anche codesto documento, come gli altri, è colorato: i mari e i corsi d’acqua mantengono ancora un’acquerellatura di colore azzurro, mentre per le aree pianeggianti il Coppo ha usato un giallo ocra e il verde scuro per i monti. La linea di costa è caratterizzata dalle consuete incisioni semilunari che divengono molto più ampie nella rappresentazione di golfi, baie e promontori, confermando senza dubbio una rilevante derivazione da documenti nautici. Malgrado tale connessione con carte portolaniche, il disegno rimane ancora approssimativo e incapace di riprodurre la tormentata frastagliatura dell’intero litorale dalmata. Basta osservare come il Golfo del Quarnero si prolunghi ininterrottamente sino alla parte più meridionale del canale della Morlacca, eliminandone così la profonda ingolfatura; le foci del Kerka, poi, manchino dei piccoli bacini lacustri nel tratto terminale del fiume; la penisola di Zara sia appena accennata e oltretutto sia orientata in maniera poco felice; il promontorio di Punta della Planca venga definito con poca precisione; il canale di Spalato e il golfo di Narenta appaiano appena visibili e il golfo del Drin presenti dimensioni troppo piccole. Col nome di Sinus Catharinus il Coppo definisce le Bocche di Cattaro, individuate da un’insenatura la cui forma risulta abbastanza vicina al vero (Lago, Rossit, 1984-1986, pp. 197; 1988, tav, XV).

Da notare, poi, la rappresentazione delle isole dalmate, tutte tracciate con segno generico: Cherso è erroneamente orientata nel senso nord-sud; Pago e Lagusta (Lagosta) sono esageratamente ingrandite; Oferus (Lussino) è grande quanto la vicina Cherso e figura posizionata troppo a sud; Solta è appena visibile. La rappresentazione delle isole del canale di Spalato e del golfo di Narenta è pressochè identica alle carte d’Italia n. 8 e 9 della medesima opera e perciò ripete gli stessi errori: Lisa (Lissa) e Curzola, infatti, hanno dimensioni eccessivamente piccole; la parte orientale dell’isola di Lesina si protende verso la foce del fiume Narenta anziché dirigersi verso Sabbioncello, la cui penisola appare ancora una volta malamente orientata. L’arcipelago zarese è costituito da tanti piccoli scogli privi di nome, mentre quelli prospicenti il litorale raguseo e quelli compresi tra lisa (Lissa) e meleta (Meleda) mancano del tutto. Tra le peculiarità positive va registrata la nomenclatura di tutte le maggiori isole e dell’isolotto di pelagosa.

La carta denota una notevole figurazione delle regioni interne: l’orografia è definita con una sottile traccia di colore verde scuro ed è ottenuta con il sistema dei coni afastellati. Un lungo sistema montuoso, che costituisce il prolungamento delle Alpi italiane, attraversa tutta la Dalmazia in maniera quasi parallela alla linea di costa e indica sicuramente la catena delle Alpi Dinariche. Una giogaia, chiamata Cetius m., la cui attaccatura si trova circa all’altezza della penisola istriana, quasi perpendicolare alla catena principale dinarica, si dipana verso l’interno del territorio tedesco, raffigurando con molta probabilità le Alpi Giulie dalle quali dipartono, anche, numerosi corsi d’acqua, tutti tributari della Sava e della Drava (Iubiana f.; darus f.; sabaria f.). Compaiono qua e là anche degli oronimi (ad esempio: m. Albanus in Liburnia; m. Niger alle spalle di Cattaro, Baebii montes nella Pannonia Inferiore). Se la rappresentazione orografica risulta abbastanza imprecisa e di maniera, destando qualche perplessità nello studioso, lo stesso non si può dire per quel che riguarda la rete idrografica, che l’Autore mostra di conoscere meglio. Vi si trovano riportati, infatti, tutti i maggiori fiumi della regione dalmata, ognuno correttamente collocato e accompagnato dal rispettivo idronimo.

Ci sono il Ticius fl. (Kerka), il Dalmesa fl. (Cettina) che prende il nome molto probabilmente dalla città costiera di Almissa, presso cui sfocia, il Naro fl. (Narenta), il Drinus fl. (Drin) tanto che tra i fiumi costieri manca solo lo Zermagna. Il toponimo Dalmesa fl. lo si trova anche nella Novella Italia del Berlinghieri contenuta nel rifacimento in versi della Geographia di Tolomeo del 1482 e nella tavola dell’Italia annessa al codice Laurentiano Plut. XXXI (Biblioteca Laurenziana di Firenze). Nella parte continentale vi sono ancora il Danubius f., la drava f., la Sava f. e i loro rispettivi affluenti, tutti identificati dal proprio idronimo che creano, con i loro flussi unitamente al colore che li contraddistingue, una notevole impressione scenografica. Manca, invece, il lago di Scutari.

Le sedi umane sono molto numerose e tutte rappresentate con torri di colore rosso e di varie dimensioni, che però non introducono una gerarchia tra gli abitati, nè consentono di intuire se si tratti di sedi vescovili o arcivescovili. Sono segnate tutte le città più importanti, soprattutto quelle costiere: iadra (Zara), Scardona, sicum (Sebenico), traguriu (Traù), spalatu (Spalato), catharus (Cattaro), ad eccezione di Ragusa.

L’analisi dettagliata consente, poi, di evidenziare le errrate collocazioni di scardona e salona poste rispettivamente l’una in riva destra del fiume Kerka e l’altra in riva sinistra del Cettina; di senia (Segna) raffigurata dove ora sorge la città di Fiume (Rijeka), e ancora la presenza per la prima volta nei materiali coppiani del De Toto Orbe di Doclea, ritenuta probabilmente la città natale dell’imperatore Diocleziano e sulla cui reale esistenza vi sono considerevoli dubbi e di Delminius, la capitale della repubblica federativa illirica sino alla conquista romana (II sec. a.C.).

La nomenclatura è tutta latina e latinizzata (nella maggior parte si tratta dell’onomastica tolemaica) ma non mancano qua e là forme moderne e volgari (Novigrad, Obrovaz). Le denominazioni dei mari (Mare Adriaticum) e quelle regionali (liburnia, dalmatia, sclavonia, Illirides) sono trascritte in stampatello maiuscolo e in rosso mentre in corsivo minuscolo tutti gli altri toponimi. Sicuramente questo documento riporta notevoli imperfezioni e alcuni errori anche piuttosto evidenti, ma nella valutazione è bene tener conto che venne stilato nei primi decenni del Cinquecento e che il Coppo si distinse pochi anni dopo per la sua produzione particolarmente precisa a livello regionale e anche per le intuizioni che lo fanno annoverare, come ricorda il Cucagna, quale uno dei precursori della geografia regionale stessa. [C.R]