Laudatio del Prof. Rossi per la laurea honoris causa dei Presidenti Mattarella e Pahor

L’Università di Trieste ha conferito oggi la Laurea Magistrale honoris causa in Giurisprudenza al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a Borut Pahor, già Presidente della Repubblica di Slovenia, due personalità che stanno contribuendo a scrivere la storia della frontiera adriatica.

A motivare il doppio conferimento è, infatti, la politica di riconciliazione perseguita dai due Presidenti che ha reso l’area del confine orientale, segnata dalle ferite della storia del Novecento, un esempio di collaborazione tra popoli legati dalla comune appartenenza all’Unione Europea.

Questa la motivazione: “Sergio Mattarella e Borut Pahor hanno saputo coraggiosamente ripudiare la prospettiva angusta dell’egoismo nazionalistico, per perseguire invece una politica di riconciliazione, retta sulla creazione e sul consolidamento di spazi e di simboli dedicati alla memoria collettiva, quale fondamento di autentica pace tra i popoli. Due statisti che hanno interpretato l’amor di patria in una dimensione europea alta, così contribuendo a trasformare la frontiera adriatica, da territorio di aspro conflitto etnico e culturale, ad area di dialogo, di cooperazione e di amicizia, nella comune coscienza dei diritti umani e nella luce delle libertà democratiche”.

I professori Davide Rossi e Fabio Spitaleri hanno dato lettura delle due laudationes. Riportiamo il testo del Professor Davide Rossi, autorevole rappresentante tra l’altro di Coordinamento Adriatico APS.

Laudatio per il conferimento della laurea honoris causa in Giurisprudenza a Sergio MATTARELLA e Borut PAHOR in occasione del centenario dell’Università degli Studi di Trieste

Magnifico Rettore,

Signor Presidente della Repubblica,

Signor Presidente PAHOR,

Colleghe e Colleghi, personale tecnico-amministrativo,

Comunità Studentesca,

Autorità civili, militari, diplomatiche e religiose,

Gentili signore e signori,

«La guerra tutti l’abbiamo provata, e anche la Liberazione che si portò dietro altri lutti e altre miserie». Con queste grevi parole, nel 1960 un giovane ed allora sconosciuto Fulvio TOMIZZA apre uno dei suoi scritti più densi e che meglio dipinge un mondo realmente straziato dai rancori, dai torti e dalle vendette sanguinose che la Venezia Giulia patì a cavallo della conclusione del secondo conflitto mondiale. Il romanzo è Materada, pubblicato a pochi anni dal ritorno di Trieste all’Italia: il protagonista è Francesco, italiano con un cognome slavo, bilingue, partigiano, costretto ad abbandonare la propria terra d’origine, tra l’angoscia per quanto si lascia alle spalle e le aspettative per un futuro incerto.

L’autore aveva vissuto in prima persona quelle terribili esperienze e rifletteva, attraverso le vicende della famiglia Kozlovic, la propria esperienza personale, in un avvicendarsi di speranze, delusioni e rassegnazione. Non a caso anche TOMIZZA fu insignito della laurea honoris causa da questo Ateneo, per aver saputo tracciare un significativo percorso di riappropriazione del vissuto tragico di questi territori.

Claudio MAGRIS dichiarò che con quell’opera narrativa si era arricchita di una nuova e forte pagina la poesia della frontiera, delle sue lacerazioni e della sua unità. Materada è un piccolo borgo vicino a Umago, in Istria, che può ben rappresentare un “non-luogo”, quale punto d’incontro tra tante etnie e nazionalità, nei secoli assoggettate prima all’Impero romano, quindi alla Serenissima Repubblica di Venezia, all’Impero Austro-Ungarico, all’Italia, alla Jugoslavia, alla Slovenia e alla Croazia. O del nessun luogo, utilizzando questa volta la fortunata espressione di Jan MORRIS, con cui l’autrice evoca il suo intenso rapporto con Trieste, città simbolo di splendore e declino, descritta come fuori dal tempo, in cui ciascuno è libero di vivere senza costrizioni, di scoprire la propria identità più autentica, la meta ideale per spiriti erranti, solitari o rinnegati, per tutti coloro che non trovano un proprio luogo su nessuna mappa. In questa giornata non possiamo non rammentare come quest’anno ricorrano anche i settant’anni dalla sottoscrizione a Londra, il 5 ottobre 1954, del Memorandum d’intesa fra i governi d’Italia, del Regno Unito, degli Stati Uniti e della Jugoslavia, preludio dell’attracco, qualche settimana dopo, dell’Amerigo Vespucci nel porto cittadino, con una Piazza Unità, colma e festante, che celebrava l’effettivo passaggio di Trieste alla amministrazione italiana.

Le complesse vicende di cui questi martoriati territori sono stati protagonisti durante il secolo breve vedono sgretolare la propria simmetria già nel 1866 con la decisione di Francesco Giuseppe di disequilibrare gli assetti tra le popolazioni italiane, germaniche, slave presenti nel suo immenso Impero, per poi esplodere nel Novecento, quando il nazionalismo, le ideologie politiche totalitarie, il radicalismo religioso crearono un contesto esplosivo, che rispecchiava – e in alcuni momenti addirittura anticipava – il contesto internazionale; scelte calate dall’alto riducevano al silenzio, costringevano a tacere su terribili misfatti con cui si stava calpestando la dignità e l’esistenza delle persone.

Il prezzo del carattere punitivo fu pagato proprio da quanti persero la vita o dovettero lasciare le proprie abitazioni in nome di totalitarismi politici che opprimevano le libertà dei singoli, colpivano l’identità personale imponendo la modifica del cognome, violavano ogni diritto delle minoranze, trasformavano in pubblico ciò che prima era privato, dissacravano Chiese e credenze religiose, costringevano a parlare lingue diverse, nazionalizzavano in modo arbitrario beni e proprietà.

Nel percorso di riappropriazione di questa storia è innegabile come la caduta del Muro di Berlino abbia avuto un ruolo nevralgico, consentendo di superare letture ideologizzate oppure politicamente parziali, permettendo di far emergere ricostruzioni, fatti, personaggi, racconti sconosciuti. Si pensi solamente alle poliformi chiavi interpretative che stanno di recente emergendo nel momento in cui affiora come nelle foibe balcaniche siano state inghiottite oltre 100.000 persone, a fronte di circa 10.000 morti italiani.

Anche grazie al Vostro apporto e alla Vostra sensibilità, il prossimo anno si celebreranno Nova Gorica e Gorizia, insieme, quali Capitali Europee della Cultura: un riconoscimento di straordinaria rilevanza e certamente destinato a cementificare la storia della frontiera adriatica, in un felice connubio tra il desiderio di recuperare le proprie radici e l’anelito a guardare con ottimismo al futuro. Come è noto, le due città, fino ad una trentina di anni fa, erano come Berlino Est e Berlino Ovest, plasticamente divise da un filo spinato posto a confine cittadino, che aveva spezzato la promiscuità di un territorio, le vite delle famiglie, i ricordi individuali e collettivi, coprendo l’avvenire di una coltre di nebbia.

L’affascinante stazione della linea ferroviaria, inaugurata nel 1906 dall’Arciduca Francesco Ferdinando per collegare Trieste all’Europa centrale, attualmente si trova sul versante sloveno di un’area che fu letteralmente divisa in due dal Trattato di Parigi del 1947, a segnare la separazione di due mondi tra loro contrapposti, l’est e l’ovest, l’Italia e l’ex Jugoslavia. Dove ora ci sono delle fioriere e si può camminare con un piede in uno Stato e uno in un altro, per tutto il periodo della guerra fredda quel limes ha raffigurato il luogo simbolo della distanza ideologica. Dal 2007 quel muro è stato sostituito da una Piazza che unisce i due comuni, denominata “Transalpina” dall’Italia e “dell’Europa” dalla Slovenia.

Non a caso si ricorre a due denominazioni differenti e non ad una unitaria, in quanto non può esistere una ricostruzione unica e comune a tutti, ma – citando il Presidente MATTARELLA – dobbiamo puntare ad «una memoria condivisa, [che] vuol dire accettare la responsabilità, ripercorrere la storia affrontando con rispetto, con approccio rigoroso e scientifico le vicende dolorose patite dalle popolazioni di queste terre».

La memoria è infatti di per sé divisa e divisiva, e non a torto Benedetto CROCE ci rammenta che tanto la dottrina quanto la politica raramente sono attori innocenti, in quanto tendono a ricostruire il passato attraverso le logiche interpretative della contemporaneità.

Oggi l’intento è quello di cercare di ricucire quei fili spezzati laddove, nel torno di un secolo, si sono succedute sovranità e ordinamenti, dall’Impero Austro-Ungarico, al Regno d’Italia, al fascismo di frontiera, dall’amministrazione militare nazista al passaggio degli slavi titini, in un terribile connubio di nazionalismi e contrapposte ideologie.

Quello di “giustizia di transizione” è un concetto interdisciplinare e che evade da una accezione meramente giuridica, riferendosi piuttosto a quei meccanismi che regolano i processi di passaggio da un assetto istituzionale autoritario ad uno democratico, rimarcando come al male prodotto dalla Storia si possa rimediare con risarcimenti e compensazioni di natura non soltanto economica, ma pure morale, sociale, religiosa e culturale. La cultura, dunque, può e deve diventare uno  strumento di giustizia transizionale, anzitutto nella valorizzazione delle prospettive storiche che rispecchiano le vicissitudini di un popolo, lo scandirsi di corsi e ricorsi, e che esprime il suo ossequio per il trascorrere, lento e graduale, del tempo, attraverso il recupero dei toponimi, dei palazzi, delle tradizioni. Sono questi elementi fondanti una comunità, che necessitano di quel rispetto che, invece, è stato violentemente negato ad ogni cambio di regime politico o di sovranità, nel tentativo di cancellare il passato, proprio in quanto legato ad appartenenze diverse.

Di contro, il valore della frontiera adriatica è proprio frutto della «sommatoria di segni materiali che si sono sovrapposti, selezionati e spesso elisi nel corso della Storia, e che nel loro complesso sono espressione della cultura, delle pulsioni, delle mentalità dei suoi abitanti, delle strutture economiche e politiche che hanno espresso». Il confine diviene un racconto dell’io, di ciò che siamo stati prima di varcarlo e di cosa abbiamo paura di perdere, abbandonare, dimenticare. Il confine viene percepito come forma di sopravvivenza, forse l’unica, della nostra identità. Eppure, in queste terre sperimentiamo uno straordinario spazio per elaborare le plurime presenze dell’“altro”, presenze che contribuiscono a tratteggiare la frontiera come una linea densa, ricca di esperienze, anche tragiche e complesse, ma capace di essere il crocevia di caleidoscopiche dimensioni.

Altri Presidenti della Repubblica sono già stati insigniti dall’Ateneo tergestino di una laurea ad honorem: si tratta di Luigi EINAUDI, in una data simbolica per questa città, il 4 novembre 1954, quando Trieste – come abbiamo prima rammentato – veniva riannessa all’Italia; e di Antonio SEGNI nel 1963, in limine all’istituzione e all’avvio della Regione a statuto speciale.

Il significato della giornata odierna si innerva in questo percorso di ricucitura e di ricostruzione di un tessuto connettivo sociale e culturale, rappresentato plasticamente attraverso le vostre mani congiunte davanti ai luoghi simbolo delle tragedie del Novecento.

In quell’occasione, il Presidente MATTARELLA ha invitato a «compiere una scelta tra fare di

quelle sofferenze patite da una parte e dall’altra l’unico oggetto dei nostri pensieri, coltivando i sentimenti di rancore, oppure al contrario farne patrimonio comune nel ricordo e nel rispetto, sviluppando collaborazione e condivisione del futuro».

Una strada che è stata tracciata anche dal Parlamento Europeo, quando nel 2019 è stata adottata una risoluzione sull’Importanza della memoria per il futuro dell’Europa, in cui si equiparano il nazismo e lo stalinismo: non rileva il contenuto o il colore dell’ideologia, quanto la sua funzione oppressiva, di integrazione attraverso il terrore e di occupazione ipertrofica dello spazio pubblico.

Così come, novecento anni or sono, giovani da tutto il Continente si riversavano a Bologna per il gusto dell’apprendere, formando una comunità coesa di studenti che sapeva guardare oltre le differenze di provenienza, oggi l’Università è il luogo nevralgico di formazione della cultura, di ricerca e di stimolo per le nuove generazioni, nel quale e attraverso il quale abbattere confini e distanze, nel tentativo di creare, nel lungo periodo, un dialogo tra le diversità e favorire l’educazione ai valori su cui si fonda la stessa Unione Europa, promuovendo il rispetto dei principi della democrazia e le regole dello Stato di diritto, la tutela dei diritti dell’uomo e delle minoranze.

Davide Rossi
Docente di Storia e Tecnica delle Costituzioni e Codificazioni Europee nell’Università degli Studi di Trieste