Nei nessi dell’impero di Roma

Scritto da Lucio Toth
Con il principato di Augusto ha inizio uno dei periodi più positivi della storia dalmata, quello della sua appartenenza all’impero romano, come del resto è avvenuto per altre regioni d’Europa e del Mediterraneo (Spagna Betica, Provenza, Sardegna, Sicilia, Tunisia, Libia, Creta, Dacia, Mesia, Tracia, Bitinia). Fu proprio questo periodo a caratterizzarne l’identità secolare e la stessa estensione geografica.
Già prima del 27 a.C. l’Illirico è provincia romana: “senatoria” fino all’11, ossia amministrata dal Senato, poi “imperiale”, cioè governata direttamente dall’imperatore. Si estende dalla costa adriatica fino alla pianura pannonica seguendo l’avanzata delle legioni. Con Tiberio si distingue un Illiricum Superior a sud della Sava, e quindi comprendente la fascia costiera, e un Illiricum Inferior a nord della Sava. I suoi confini sono a nord con la provincia della Pannonia (pianura dell’attuale Ungheria a sud del Danubio), Mesia ad est (approssimativamente l’attuale Bulgaria), a sud con la Macedonia (attuale Repubblica di Skopije e Macedonia greca), ad ovest con la X Regio dell’Italia, la “Venetia et Histria”. Il limes dell’Italia romana sul Quarnaro è ad ovest di Albona e Fianona in epoca augustea, ad est di Buccari dal 173 d.C.
Durante il principato di Claudio con il nome Dalmatia si designa l’Illirico Superiore. Inizialmente sede di due legioni, la VII e la XI, divenne “provincia inermis” al tempo di Nerone, non essendo più necessario un forte presidio militare.
I suoi generali e si suoi quadri ufficiali saranno inviati a difendere le nuove frontiere dell’impero, dalla Britannia al Norico (attuale Austria), dalla Dacia (Romania) alla Siria. Divennero governatori e magistrati e nel III secolo salirono alla dignità imperiale, come Claudio II, Aureliano, Probo, Diocleziano. Altri imperatori di stirpe illirica seguiranno alla guida dell’impero, come Galerio, Massimiano, Costanzo Cloro, Costantino e i suoi successori e lo stesso Giustiniano, ultimo princeps latino dell’impero romano d’oriente. Notevole fu nel tardo impero la presenza di dalmati in tutta l’amministrazione imperiale, sia centrale che periferica. Salona divenne uno dei più importanti porti del Mediterraneo e comunità di mercanti e armatori dalmati popolarono le città più attive del mediterraneo, come Salonicco, Alessandria d’Egitto, Marsiglia.

Rovine di Salona
Rovine di Salona

Le città più importanti, collegate da una fitta rete di strade e acquedotti, furono oltre a Salona, Zara e Nona (Aenona – Nin): a nord Scardona (Skadrin) alle foci del Tizio (Cherca- Krka); Narona, alle foci della Narenta, e più a sud Epidauro (Ragusa) e Risinium.
Altri centri urbani di rilievo per i resti archeologici che ci hanno lasciato furono Asseria e Burnum nell’entroterra zaratino; Promona, Aequum, Magnum, Delminium nell’entroterra salonitano; Butua (Budua – Budva) alle Bocche di Cattaro e sulle isole Curicta (Veglia – Krk), Arba (Arbe – Rab), Absoros o Absortium (Ossero – Osor), Cissa (Pago – Pag), Brattia (Brazza – Bra?), Pharia (Lèsina – Hvar), Corcyra Nigra (Curzola – Kor?ula).
Per dare ragione di questa profonda romanizzazione della Dalmazia Theodor Mommsen così scriveva: “Nel tempo della Repubblica romana i commercianti italici, succeduti ivi ai greci, avevano in tal numero colonizzato i grandi porti di Epidaurum (Ragusa Vecchia), Narona, Salonae e Iader (Zara), che non poca parte essi poterono avere nella guerra di Cesare e Pompeo. Ma non prima di Augusto questi luoghi vennero rafforzati con novelle colonie di veterani e, ciò che più monta, ordinati a municipi. Nel medesimo tempo in parte l’energica distruzione dei covi di pirati ancora esistenti sulle isole, in parte la soggiogazione del continente e l’allargamento dei confini verso il Danubio, tornaron di vantaggio soprattutto a questi Italici insediati sulla costa orientale del mare Adriatico. Salonae, la capitale del paese, sede del governatore e dell’intera amministrazione, fiorì più di tutte rapidamente e sorpassò di gran lunga le antiche colonie greche di Apollonia e di Dyrrachium…
E’ ben probabile che al fiorire della Dalmazia e al decadere della costa illirico-macedonica abbiano grandemente contribuito l’opposizione tra il regime imperiale e il senatorio, la migliore amministrazione e il favore del vero sovrano. E alla medesima cagione dovrà pure attribuirsi l’essersi la nazione illirica conservata nei limiti della provincia macedonia, meglio che in quelli della dalmatica. In quella (attuale Albania, n.d.r.) è viva tuttora, e tranne la greca Apollonia, e la colonia italica di Dyrrachium, nell’Impero, accanto alle due lingue ufficiali del continente (latino e greco) deve essere rimasta illirica quella del popolo.
Per contrario nella Dalmazia le coste e le isole ebbero, per quanto era possibile, un ordinamento comunale italico – il tratto inospitale al settentrione di Iader rimase necessariamente indietro – e bentosto l’intero litorale parlò il latino, quasi come ai nostri giorni (1885, n.d.r) parla il veneziano. Rispetto al continente poi, ostacoli locali si opposero affinché la civiltà vi penetrasse. I maggiori fiumi della Dalmazia, in fatti, formano piuttosto cascate d’acqua che mezzi di comunicazione; e la stessa costruzione delle vie incontra straordinarie difficoltà a cagione della natura del suolo. Il governo romano si adoperò con ogni mezzo, affinché il paese fosse aperto. Protetta dai campi legionari di Burnum e di Delminium, campi che anche qui devono essere stati le leve dell’incivilimento e della latinizzazione, l’agricoltura si sviluppò alla maniera italica nella vallata della Kerca e della Cettina e insieme con esse si videro fiorire anche la coltivazione della vite e dell’olivo, e in genere gli ordinamenti e i costumi romani. Invece di là della linea di divisione delle acque fra il mare Adriatico e il Danubio, le vallate della Kulpa e del Drin, sì poco adatte all’agricoltura, rimasero al tempo dei Romani in quella stessa condizione primitiva, che si osserva oggi nella Bosnia.” (Le province romane, cap. VI, Ed. Sansoni 1991, pagg. 220-221).
Gli studi e le acquisizioni documentali e archeologiche che sono seguite nel Novecento non hanno modificato nella sostanza l’acutezza dell’intuizione di Mommsen. Da queste dinamiche deriva una costante nella storia della costa dalmata. E’ la presenza di piccole città prospere e aperte agli influssi esterni, pronte ad entrare in contatto con il resto del Mediterraneo e a recepire gli apporti di culture e valori estetici e civili che riconoscono come superiori, o comunque utili al loro sviluppo. E la perenne antitesi con un retroterra aspro e severo, impermeabile alle influenze esterne e geloso nel conservare i legami tribali. Questi centri di civiltà si arroccano sui promontori e sulle isole, trovando nella navigazione e nei commerci le loro risorse primarie, ma cercando nel contempo di estendersi nel retroterra rurale il più possibile, con un processo di acculturazione del territorio per utilizzarne le risorse agricole e pastorali e, più ancora, per assicurarsi uno spazio vitale di sicurezza contro le minacce delle popolazioni confinanti.
Ernst Jünger, che ha viaggiato a lungo in Dalmazia, ha ambientato il suo romanzo «Le bianche scogliere di marmo» proprio sulla costa dalmata. Il fascino della narrazione sta nel contrasto netto tra una civiltà marinara e solare, fondata sulle arti e sul culto della legge, e una cultura barbarica fatta di rigidi codici tribali e di superstizioni immutabili e sacralizzate.
Non è detto che la cultura barbarica – come pensò per primo Giambattista Vico – sia sempre negativa. Tra le due culture si può anche stabilire una simbiosi feconda, perchè a volte è la cultura dell’entroterra ad essere autoctona, come quella illirica nel caso delle colonie greche e latine; altre volte è la cultura delle città costiere ad essere la più antica e radicata sul territorio, che più o meno gradualmente si popola di genti nuove, come è avvenuto nell’alto Medioevo. Ed è questa simbiosi continua ad impedire la decadenza della cultura più antica, che si rinnova e riacquista vigore con gli apporti dell’entroterra e di oltremare.
Questa situazione si è ripetuta con corsi e ricorsi in più epoche della storia, dalle prime città liburniche alle colonie greche della costa orientale adriatica (Traù, Curzola, Epidauro), alle colonie latine ed italiche dell’età repubblicana romana, ai municipi bizantini dell’Alto Medioevo fino al liberi Comuni del Duecento e del Trecento, passati dal dalmatico al veneto nel Rinascimento e nell’età moderna, come si vedrà più oltre.
Diocleziano lasciò un’impronta profonda nella storia della Dalmazia, così come il suo principato fu decisivo per la storia di Roma e dell’Occidente. Egli prese coscienza, con grande realismo, della difficoltà di controllare e governare da un solo centro strategico e politico un impero che andava dalle Colonne d’Ercole al Caucaso, dai deserti egiziani alle isole britanniche. Prese anche atto delle differenze economiche e culturali che dividevano la parte occidentale, meno ricca e popolata, ma più omogenea linguisticamente per la diffusione del latino dall’Illirico alla Mauritania, e la parte orientale, più ricca, più variegata linguisticamente e religiosamente e profondamente permeata dalla cultura ellenistica.
Si propose infine di superare il problema della successione nell’imperium, che aveva dato luogo alla lunga crisi politica a metà del III secolo. Furono queste esigenze a dettare la grande riforma della tetrarchia. L’impero fu diviso in quattro prefetture e tredici diocesi: l’Oriente, che comprendeva la Tracia, l’Asia Minore, la Siria e la Palestina, l’Egitto e la Cirenaica; la Prefettura per l’Illirico che comprendeva l’Illirico meridionale a sud di Budua, la Mesia, la Grecia e Creta; la Prefettura dell’Illirico Italia ed Africa, che comprendeva la Dalmazia, la Pannonia, il Norico, la Germania meridionale, la Rezia, la penisola italiana con le sue tre isole e la costa nordafricana, dalla Tripolitania alla Mauritania orientale; la Prefettura delle Gallie, con la Gallia fino al Reno, la Britannia , la penisola iberica e la Mauritania occidentale. A capo delle due prefetture principali (Oriente e Italia) erano i due Augusti, con capitale a Nicomedia e a Milano; delle due prefetture minori due Cesari, che sarebbero succeduti automaticamente ai due augusti se questi avessero ceduto la porpora. Riservò a sé oltre alla Prefettura dell’Oriente il titolo di Senior Augustus come segno della sua primazia.
Nella nuova ripartizione il territorio della Dalmazia vera e propria fu quindi limitato a nord di Budua e assegnato alla diocesi dell’Illirico e alla Prefettura d’Italia, mentre la parte più a sud (attuale Albania) prese il nome di Prevalitana e incorporata nella Prefectura per Illyricum, insieme alla Macedonia e alla Grecia.
Il meccanismo successorio non funzionò gran che, ma la divisione in due dell’orbe romano divenne definitiva con i principati di Costantino, che eresse Bisanzio, con il nome di Costantinopoli, a capitale di tutto l’impero (326 d.C.), e di Teodosio I (347-395 d.C.).

Diocleziano tentò così di conciliare l’unità dell’impero con la sua sicurezza militare e la difesa della sua civiltà, della cui sintesi greco-romana le classi dirigenti erano pienamente consapevoli. La polemica storiografica sulla sua responsabilità nella spaccatura tra oriente e occidente mediterraneo si accompagna al riconoscimento della sua lungimiranza nell’aver salvato almeno la metà orientale, impedendo che lo sfacelo militare e politico della Pars Occidentis nel V secolo trascinasse con sé anche la Pars Orientis.
Certamente l’ispirazione fondamentale della riforma dioclezianea era conservatrice: contenere le spinte esterne delle popolazioni barbariche che premevano alle frontiere settentrionali e mantenere forte la coesione civile e religiosa interna, difendendo il culto politeistico degli avi. La diffusione del cristianesimo gli apparve – come ai suoi predecessori – un pericolo, perché divideva la coscienza del cittadino e del soldato romano tra fedeltà alle leggi dello Stato e fedeltà alla parola di Gesù, che non poteva convivere con il sincretismo religioso dell’epoca e il culto alla divinità dell’imperatore. La crudeltà della sua persecuzione derivava da questa convinzione. La nuova religione era penetrata nella stessa corte imperiale, nelle sue coorti di pretoriani, nella sua famiglia.
Il paradosso è che molti dei martiri della sua persecuzione erano suoi conterranei, residenti in Dalmazia, a Roma o in altre città dell’impero. Proprio durante il suo principato un dalmata salì al soglio pontificio, San Gaio (283 – 296 d.C.). A fronteggiarsi nel conflitto che aveva come posta l’avvenire dell’impero e della nuova fede erano due figli della stessa terra, con la stessa tenacia e la stessa convinzione di essere nel giusto. Nello stesso abbigliamento e in molti usi della liturgia dei primi secoli si avverte l’influenza delle comunità dalmate, come nella veste bianca orlata di rosso che i chierici indossano sotto la pianeta: la dalmatica, derivante dai costumi della regione.
In effetti la predicazione evangelica era apparsa in Dalmazia addirittura in epoca apostolica. Fu lo stesso San Paolo a inviare il discepolo Tito, già fondatore dell’ecclesia cretese, a portare il Vangelo sulla costa dalmata. Ne dà notizia lui stesso nella Seconda Lettera a Timoteo (4, 10). Quale sia stato il successo di questa missione non è documentato. Certo nel III secolo le principali città dalmate erano sedi di vescovi, malgrado la condizione di semiclandestinità dell’organizzazione ecclesiastica.

Durante il suo governo Diocleziano attuò un vasto programma di opere pubbliche in tutto l’impero (terme, acquedotti, strade, ponti): a Treviri, Milano, Antiochia, Sirmio, Cartagine, Tessalonica e soprattutto a Roma e nella sua Salona, nei cui pressi eresse anche il suo palazzo-fortezza sulla riva del mare, che rappresenta uno degli esempi più cospicui e maturi dell’architettura e dell’urbanistica romana. E’ tra le sue mura che si rifugeranno i profughi salonitani all’epoca dell’invasione avaro-slava, fondando la città di Spalato. E fu proprio nel suo palazzo che l’imperatore si ritirò nel 305, deponendo volontariamente la porpora in favore di Galerio.

Salona. Peristilio del Palazzo di Diocleziano
Salona. Peristilio del Palazzo di Diocleziano

Appena otto anni dopo, nel 313, il suo successore Costantino maturerà una visione diametralmente opposta: promulgherà l’Editto di Milano per affermare la parità dei culti e adotterà addirittura il simbolo cristiano come insegna delle legioni romane. La sua intuizione era che la nuova fede avrebbe potuto ravvivare e rafforzare il senso di appartenenza allo stato romano, considerato un tutt’uno con la civiltà universale, prevalendo sulla proliferazione di sette e di culti che la vecchia religione dei Quiriti non era stata capace di contenere.
Probabilmente fece questa scelta rischiosa più per fede sincera che per realismo politico, puntando tutto sulla vocazione messianica del cristianesimo, che si era diffuso anche nell’esercito e nell’amministrazione, sia pure in misura minoritaria, risolvendo così i problemi di coscienza degli ufficiali e dei soldati che credevano ancora nella grandezza della patria romana e volevano servirla, senza tradire la nuova fede.
Questa concezione troverà il suo sviluppo nel pensiero dei Padri della Chiesa occidentale Agostino e Girolamo. Sarà proprio quest’ultimo, il più noto tra i santi dalmati, a concepire l’idea di tradurre in latino i testi biblici, del Vecchio e del Nuovo testamento, per renderli accessibili ai ceti più umili della Pars Occidentis che non conoscevano il greco classico. La Vulgata di San Girolamo diventerà per secoli la base testuale dell’insegnamento evangelico della Chiesa Romana.
Di questa rinnovata coscienza civile – che vedeva nell’impero di Roma non più un sistema di potere demoniaco, ma una garanzia di continuità della pax romana e di diffusione del nuovo credo alle popolazioni barbariche che tracimavano alle frontiere dell’Europa centrale – è testimonianza l’invocazione che si legge sulla grande architrave della basilica dei martiri a Salona: DEUS NOSTER PROPITIUS ESTO REI PUBLICAE ROMANORUM . Una richiesta di protezione per la minaccia incombente.
Dopo l’Editto di Milano la cristianità dalmata fiorirà in tutta la costa, con la divisione del territorio in vaste e numerose diocesi che si estenderanno profondamente nell’entroterra oltre la catena della Alpi Dinariche e Bebie e la costruzione di imponenti basiliche (Salona, Asseria, ecc.), legandosi per secoli alla Chiesa Aquileiense, che si assunse la missione di diffondere la nuova fede e a governare le strutture ecclesiali in tutta la regione tra l’Italia di nord-est, il Norico e la costa dell’adriatico orientale. Conferma l’importanza assunta dalla chiesa dalmata la presenza di un suo monastero per pellegrini nella capitale orientale dell’impero, Costantinopoli, e la circostanza significativa che fu un presbiter urbis illyrica de gente Petrus vir nomine tanto a costruire sull’Aventino una delle prime basiliche di Roma a metà del IV secolo, come si legge sul mosaico coevo della parete interna.
La stessa leggenda della fondazione da parte di due monaci dalmati, Marino e Leo, lapicidi di Arbe, delle due cittadine di San Leo e San Marino, costruite su due speroni rocciosi del Montefeltro, è un altro segno della vivacità della regione in quel periodo in cui cristianesimo e romanità si venivano fondendo in un unico sistema di valori.

E sarà proprio in Dalmazia che si scriveranno le ultime pagine di storia dell’impero romano d’occidente.
A metà del V secolo le province occidentali dell’impero (Germania, Gallie, Iberia, Nord-Africa) erano ormai perdute, invase dalle popolazioni germaniche che vi avevano insediato i loro regni: Franchi, Burgundi, Alemanni, Visigoti, Vandali. L’Italia resisteva, con la Rezia, la Provenza e la Dalmazia. Fu proprio a Salona che il patrizio dalmato Marcellino, già generale di Ezio ai Campi Catalaunici nell’ultima vittoria contro gli Unni di Attila, costituì un proprio governo di fatto indipendente, nel tentativo di liberare le coste italiane del Tirreno e del Canale di Sicilia dalle scorrerie dei Vandali, che avevano occupato il Nord-Africa (454-468).
Gli successe il figlio della sorella Giulio Nepote, che si fece riconoscere imperatore d’Occidente dall’imperatore di Bisanzio Leone I e riuscì a riconquistare l’Italia togliendola agli eserciti barbarici che se ne erano impadroniti. Ma fu riconquista di breve durata, dalla primavera del 474 all’estate dell’anno dopo, quando il generale pannone Oreste elevò al trono il figlio minorenne Romolo Augustolo.
Giulio Nepote si ridusse allora in Dalmazia, considerato ancora dalla corte di Costantinopoli come l’unico legittimo imperatore d’Occidente, fino a quando nel 480 due sicari lo uccisero presso Salona, tra i colonnati del palazzo di Diocleziano. La ricerca del mandante è rimasta un giallo. E’ probabile che fosse Glicerio, generale devoto alle milizie barbariche che Giulio Nipote aveva sconfitto in Italia nel 474 e che era poi diventato vescovo di Salona, a dimostrazione della sua costante vicinanza al potere dei nuovi padroni d’Italia.
Nel frattempo infatti Odoacre, re degli Eruli, una delle tribù germaniche installate nella Penisola, aveva deposto Romolo Augustolo, proclamandosi re d’Italia e inviando a Costantinopoli le insegne imperiali (476). La storiografia considera conclusa a questa data la storia dell’Impero romano d’Occidente.
Con la morte di Giulio Nipote anche la Dalmazia, ultimo lembo dell’impero occidentale, entra a far parte del regno di Odoacre e poi, dal 493, di quello di Teodorico, primo re degli Ostrogoti.

Teodorico, come è noto, mantenne intatto l’ordinamento amministrativo romano per gli affari civili che riguardavano la popolazione latina del suo regno, tenendo per sé e i suoi ufficiali goti l’amministrazione militare. In Dalmazia egli era rappresentato da un comes Gothorum, mentre l’amministrazione civile restava alle magistrature ordinarie locali: decurioni, tribuni, ecc.
La stessa collocazione della capitale a Ravenna, già scelta dagli ultimi imperatori, rappresentava lo spostamento dell’asse del sistema politico verso l’Adriatico e l’oriente bizantino. L’Adriatico diventa così per secoli il baricentro della politica europea tra l’oriente greco-bizantino, erede di Roma, e l’occidente romano-germanico. La Dalmazia ne sarà la cerniera.