Ragusa di Dalmazia, la quinta repubblica marinara

Sulle bandiere della nostra marina militare e mercantile si stagliano i simboli delle quattro repubbliche marinare. Un omaggio dovuto a una lunga epopea con, purtroppo, una omissione, una dimenticanza. Manca nello scudo araldico il simbolo di Ragusa di Dalmazia la negletta quinta repubblica italica. Ecco la sua storia.

Tra l’806 e 808 la flotta bizantina condotta dal patrizio Niceta si schierò davanti alle isolette su cui sorgerà Venezia per contrastare le pretese di Carlo Magno, vincitore dei longobardi e nuovo padrone dell’Italia centro-settentrionale. Fu il primo, inedito scontro tra due imperi cristiani – uno continentale, l’altro mediterraneo – e l’ultimo intervento militare di Bisanzio nell’alto Adriatico. Con la pace di Aquisgrana dell’812 il re franco, in cambio di un vago riconoscimento dal basileus del titolo d’imperatore, rinunciò ad ogni pretesa sulle Venetie marittime e sulla Dalmazia. L’Istria passò ai carolingi che incoraggiarono la penetrazione nelle campagne dell’elemento slavo – apparso nell’area dal 599-600 – a detrimento della popolazione latina che via via sfollerà verso coste e isole controllate dai veneto-bizantini. La stessa sorte dei profughi di Epitauro che, incalzati dall’avanzata slava, si rifugiarono su un’isoletta rocciosa nel basso Adriatico, il primo nucleo della città di Ragusa. L’inizio di una grande (e dimenticata) storia di uomini e di navi.

Nello scorrere dei secoli la città dalmata prese forza e vigore Ragusa; schiacciata tra i cupi monti delle Alpi dinariche e l’Adriatico arcigno – “un mare di montanari” per Braudel – lungo un territorio di soli 1500 chilometri quadrati popolato da circa 30mila persone, dal 1358 la piccola Repubblica aveva saputo emanciparsi dallo sguardo di Venezia e, nel 1410, da quello ungherese e rendersi pienamente indipendenteLibertas era il suo motto e per conservare quella libertà accettò dal 1458 di pagare un tributo all’incombente impero ottomano per poi firmare nel ‘94 un importante trattato con la Spagna della reconquista. Esercizi di raffinato equilibrismo di un ceto dirigente d’altissimo spessore. Un’aristocrazia, come racconta Egidio Ivetic nel suo splendido libro dedicato all’Adriatico, fatta da:

«Uomini inseriti nel mondo italiano e familiari con il mondo balcanico, navigatori in tutto il Mediterraneo, da Venezia a Barcellona e oltre. A proprio agio tra L’Oriente e l’Occidente, dotati di una spiccata identità, comunque e indiscutibilmente cattolica. Nonostante le ridotte dimensioni, si rimane impressionati dall’estrema vivacità economica e dal dinamismo diplomatico di questa città-stato. Come se Ragusa, nell’operato dei suoi uomini, delle sue famiglie di punta, fosse riuscita e comprendere e a realizzare un perfetto equilibrio tra le proprie capacità e strutture, quelle dell’Adriatico e quelle del Mediterraneo.

Grande politica unita ad un’ottima tecnologia. Con il pregiato legname delle foreste del Gargano, a Ragusa si costruirono magnifici velieri – alcuni capaci di 400 tonnellate – per una flotta forte di circa 100 navi per la navigazione di lungo corso e di oltre il doppio per l’impiego costiero. Intanto si perfezionava il diritto marittimo con una speciale attenzione, codificata nel 1341, al controllo della linea massima di carico delle navi; non paghi, nel ‘77 i dalmati introdussero per primi il servizio sanitario marittimo con pratiche di disinfezione e quarantena.

Il Cinquecento fu per la città adriatica il momento magico. Grazie ad una flotta di quasi duecento velieri — con una capacità totale stimata attorno alle 66mila tonnellate a fronte delle marine mercantili di Venezia (nel 1567, circa 30.000 tonn.), Genova (nel 1550, 28.000 tonn.) e Marsiglia (4.000 tonn.) — la piccola Repubblica era una potenza mercatile di tutto rispetto. Con capienti caracche e galeoni gli illirici, non sazi dei mari levantini, gestirono per conto dei genovesi i compiti marittimi nel Tirreno (dal 1550 quasi un lago raguseo) ed estesero i loro traffici sino all’Atlantico e oltre. Con incredibile spregiudicatezza.

Come già accennato Ragusa, sebbene tributaria della Sublime Porta, seppe mantenere la propria indipendenza accontentando, con comune soddisfazione, sia i sultani islamici che i cattolicissimi monarchi. Considerato l’ingente flusso di denaro, Costantinopoli si accontentò di una dichiarazione di neutralità e chiuse ambedue gli occhi sui fruttuosi rapporti che i ragusei, tramite il vicereame di Napoli, mantennero con Madrid. Un ottimo affare. In cambio di ampie facilitazioni e privilegi nei porti della corona, la Repubblica contribuiva con grandi navi ed ottimi equipaggi alle campagne di Carlo contro Tunisi ed Algeri (ma mai, in virtù di una clausola degli accordi, contro gli ottomani) e forniva personale qualificato alla burocrazia militare e civile iberica: il comandante Vincenzo Buna fu consigliere dei viceré di Napoli e del Messico, i nobili Pietro e Andrea Omucevich ammiragli della flotta spagnola e altri ragusei divennero alti funzionari del potere asburgico.

Inevitabile quindi la decisione nel ‘88 di contribuire all’imponente spedizione di Filippo II contro l’Inghilterra elisabettiana: l’Invicibile armada. Ma quella che doveva essere poco più di una crociera di piacere e una passeggiata militare (con un gran bottino finale), si trasformò in una catastrofe: dei trentatré vascelli — la “Squadra illirica” — partiti dall’Adriatico per unirsi alla flotta del duca Medina-Sidonia, dopo il disgraziato scontro nella Manica con le navi di Francis Drake e la burrascosa circumnavigazione della Britannia, ne tornarono in patria soltanto ventuno. Assieme alla perdita del naviglio, il blocco dei commerci con l’Inghilterra (con la dispersione della fiorente colonia di Londra) e le Fiandre, la Repubblica pianse la morte centinaia di provetti marinai, una ferita tremenda per il florido ma sempre minuscolo Stato.

Servì un buon ventennio perché i dalmati, gente ingegnosa, potessero riprendersi. All’inizio del Seicento l’ottima industria cantieristica, imperniata tra lo squero di Gravosa e altri cantieri minori, oltre a produrre per gli armatori locali varò una linea di innovativi vascelli d’alto bordo per la riorganizzata Armada del Mar Oceano spagnola. Fu la fortuna di Giorgio de Oliste, Cristoforo Martalossi e Nicola de Masimbrandi, tre abili asentistas che fornirono a Madrid decine di moderni velieri (in parte realizzati, su licenza, nei cantieri napoletani). Intanto il commercio riprese nuovamente vigore grazie ad un efficace network mercantile di respiro globale. Un dato ben noto a William Shakespeare che nel “Mercante di Venezia” fece dire dall’ingordo Shylok in riferimento all’ingenuo Antonio: “egli ha una ragusea in rotta per Tripoli, un’altra per il Messico, una terza verso le Indie”. E proprio nell’enclave portoghese di Goa, sulla costa dell’India, i ragusei ebbero per lungo tempo una loro stazione commerciale e, dal 1541, una chiesa intitolata a Biagio, il santo protettore della città.

A partire dal 1645, complice l’interminabile guerra di Candia, la neutrale Repubblica di San Biagio, cercò di rimpiazzare Venezia nei traffici con il Levante e l’Africa settentrionale grazie ad una flotta mercantile nuovamente ragguardevole: a metà del Seicento i registri delle tasse stimavano 74 velieri di lungo corso a cui vanno aggiunti centinaia di legni minori per il cabotaggio costiero. Una formidabile ripresa economica interrotta il 6 aprile 1667 da un devastante terremoto seguito da un tremendo incendio. Una tragedia immane e un colpo durissimo per lo Stato raguseo. Miracolosamente la decimata aristocrazia e ciò che rimaneva del ceto armatoriale riuscirono a conservare l’indipendenza, contenendo gli appetiti turchi e austriaci, e ricostruire la città per ritrovare, quasi un secolo più tardi, la piena prosperità economica. A metà Settecento la marina mercantile ragusea poteva contare su 170 navigli d’alto mare impegnati principalmente sulle rotte da Livorno per il Levante o dai granai del Mar Nero verso la Spagna e, dal 1780, persino per le Americhe:

“Le navi di Ragusa raggiungono i più lontani Paesi extra-europei solcando arditamente gli oceani. Si calcola che soltanto il valore delle 280 navi di lungo corso raggiunga 13 milioni e 500mila piastre, fruttando entrate per oltre 2 milioni di piastre all’anno. Le entrate complessive derivanti dal commercio raguseo in mare e per terra ammontano a 3 milioni e 725mila piastre, permettendo all’erario statale di registrare un attivo di 2 milioni e 329mila piastre”.

Ma il dinamismo commerciale e finanziario degli homines novi — quella borghesia imprenditoriale affermatasi dopo il sisma e cooptata malvolentieri nelle file dell’aristocrazia — non riuscì a fermare la decadenza politica della città. Nello scorrere del Settecento i resti della vecchia oligarchia, strutturata in esangui casate arroccate nel Consiglio maggiore, paralizzarono cocciutamente la vita pubblica impedendo ai “nuovi nobili” ogni seria riforma e possibili inversioni di rotta. Nonostante la vitalità della sua flotta, al tramonto del secolo le fondamenta dell’antico edificio statuale erano definitivamente compromesse. 

Poi Napoleone Bonaparte. Il giovane Marte che accoppò le esangui talassocrazie italiche. Grazie alla sua perifericità adriatica e per merito dei suoi armatori e diplomatici, la minuscola Repubblica per un quindicennio riuscì a schivare lo tsunami provocato dalla rivoluzione francese. Sebbene imbalsamato in obsolete strutture oligarchiche, lo Stato raguseo mantenne intatta sino all’ultimo soffio di vita l’antica arte del negoziare e mediare (per meglio commerciare…) tra le opposte potenze. Garantiti dello loro status di neutralità, 637 bastimenti — di cui 230 velieri di lungo corso — continuarono a solcare tutti i mari del mondo, dal Mar Nero a Gibilterra, dalle Indie sino a Baltimora, New York, Cuba e il Brasile; traffici che le guerre continentali resero ancor più fruttuosi con il contrabbando di grano e sale ma anche con proibitissime forniture di armi e munizioni alle parti in conflitto. Ancora una volta denari, tanti denari. Al tramonto del secolo l’erario statale, come ricorda Giacomo Scotti, registrava “un attivo di 2 milioni e 329 mila piastre”.

Una bolla fortunata ma effimera. All’indomani della caduta di Venezia la guerra si ricordò della Dalmazia. Minacciose armate austriache e francesi assieme a navi russe e inglesi iniziarono a lambire coste e confini dell’indifesa micro nazione e, come da consolidato copione, i ragusei trattarono con tutti, pagando e corrompendo ambasciatori, generali, ammiragli. Un sottile gioco d’equilibri e d’inganni che s’interruppe il 26 maggio 1805 quando Napoleone, preoccupato dalla presenza zarista nel vicino Montenegro, diede l’ordine d’invasione trasformando il territorio, con il solito corollario di saccheggi, distruzioni, ruberie, in un campo di battaglia. I cantieri si fermarono, le navi vennero confiscate o disarmate, i magazzini svuotati. Il tormento si protrasse sino al 31 gennaio 1808. In quel giorno infausto il maresciallo Marmont, dopo aver mobilitato le truppe presenti in città, mandò un suo ufficialetto al palazzo dei Rettori, sede del Senato. Poche parole lapidarie: “le Gouvernement et le Senat de Raguse sont dissous”. I reggitori ammutolirono. Lo Stato di San Biagio era soppresso. Il tre giugno l’imperatore comunicava all’Europa il decesso della quinta repubblica marinara italica.  

Caduto l’imperatore la città fu inglobata nei domini asburgici e via via marginalizzata. Vienna privilegiò Trieste e Fiume e Ragusa, ormai isolata, fu inesorabilmente slavizzata. Vani furono gli sforzi dei nobili di ricostituire la repubblica. Congiurarono, si armarono, insorsero, combatterono, intrigarono, supplicarono Francia e Austria. Poiché tutto falliva i più accesi emigrarono, i più idealisti si condannarono al celibato “per non procreare degli schiavi”. La borghesia si adagiò nel nuovo ordine di cose continuando a trafficare. L’ultimo sindaco italianofono fu Francesco Gondola morto nel 1899.

L’atto finale si concluse all’indomani della grande guerra e dell’impresa di d’Annunzio a Fiume. il 12 novembre 1920 Giovanni Giolitti, ben più strutturato del modesto Nitti, chiuse a Rapallo la trattiva italo-jugoslava; il trattato stabiliva la costituzione dello Stato libero di Fiume (sotto controllo italiano) e la sovranità su Zara, Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa con la rinuncia alla Dalmazia. Ragusa venne inglobata nel regno dei Karadordevic e agli italofoni locali (tra cui la famiglia di Ottavio Missoni) non restò che la via dell’esilio. 

Marco Valle
Fonte: InsideOver – 10/06/2023