Il nipote di Tito difende l’epurazione partigiana

Scritto da Stefano Giantin, «Il Piccolo», 12/04/11
Josip «Joska» Broz vanta un curriculum eterogeneo. È stato boscaiolo, operaio, poliziotto, guardia del corpo del nonno. E suo accompagnatore prediletto durante le battute di caccia. Con orgoglio, dice di «essersi fatto da solo» come gli aveva consigliato Tito e di non aver ricevuto da lui alcun favoritismo, solo tre regali: una «Prinz», la prima macchina, un orologio «Bulova» e una doppietta. Oggi cerca di rastrellare i voti di chi rimpiange il Maresciallo, promettendo benessere e giustizia sociale a pensionati e disoccupati. Il suo partito conterebbe già 48.000 iscritti. Tutti uniti ai comizi dietro l’effigie di Tito e allo slogan «da dove ti sei fermato tu, continuerò io». Magari rifondando la Jugoslavia. Un sogno a cui però neppure i più puri «jugonostalgici» serbi credono veramente.
BELGRADO – Eliminare avversari ideologici e collaborazionisti dopo la Seconda guerra mondiale è stato legittimo. Unico problema, i titini «ne hanno uccisi troppo pochi». Parola di Joska Broz, nipote di Tito e discusso fondatore del nuovo partito comunista serbo. Durante un dibattito in Tv, Broz ha fatto sfoggio del suo becero repertorio da politico in cerca di visibilità. La scintilla è stata un’affermazione di un ospite in studio, Aleksandar Jugovic. Il vicepresidente del «Movimento serbo per il rinnovamento» di Vuk Draskovic, l’ex ministro degli Esteri sotto il governo Kostunica, aveva accennato alle «migliaia di civili e oppositori finiti in fosse comuni in Serbia dal 1944 al 1946», tra cui suo nonno. Broz non ci ha più visto e ha replicato che i partigiani «non hanno ucciso tutti quelli che se lo sarebbero meritato». Se lo avessero fatto, ha aggiunto indicando Jugovic, «lei non sarebbe qui». Broz da anni prova maldestramente a proporsi come una controfigura del nonno. Lo scivolone sui crimini compiuti in nome di Tito ha però suscitato sdegnate reazioni a Belgrado. Chi gli ha ricordato le fucilazioni sommarie dei cetnici fra le montagne della Serbia, chi la cacciata degli «svevi» del Danubio, minoranza tedesca colpevole di aver agito da «quinta colonna» dei nazisti in Jugoslavia.
Si sarebbe potuto menzionare anche il massacro di Bleiburg: degli oltre 100.000 ustascia e sfollati croati in fuga verso l’Austria, appena 30-40.000 sfuggirono a un feroce pogrom durato 5 giorni. Per lo storico Rudolph Joseph Rummel, solo tra il ’44 e il ’45 sarebbero state 500.000 le vittime del terrore di Stato di Tito. Numeri più che sufficienti per screditare, se ce ne fosse stato bisogno, le tesi di Joska Broz. Ma più che in un’analisi storiografica sul dopoguerra jugoslavo, Broz sembra impegnato nell’accrescere, con ogni mezzo, il suo per ora limitato bacino di voti. Di recente è salito alla ribalta per aver promosso con gli ultranazionalisti radicali e il figlio minore di Vojislav Seselj una manifestazione di solidarietà a favore di Gheddafi, «amico del popolo serbo». Joska si è anche inserito nella nuova battaglia legale per la sostanziosa eredità del Maresciallo assieme agli altri nipoti e all’unico figlio di Tito ancora in vita. Ma soprattutto alla vedova Jovanka. Che, si mormora a Belgrado, non vede di buon’occhio le comparsate televisive e le incaute manovre politiche di Joska. Un aspirante Tito senza il suo carisma, che cerca di farsi eleggere in parlamento dai tanti nostalgici del nonno.